Corriere della Sera

Quei borghesi fragili, incapaci di amare

Emmanuelle Devos in coppia con Gifuni: ritratto sentimenta­le di due cinquanten­ni

- Stefania Ulivi

La storia — un amore inaspettat­o tra due cinquanten­ni borghesi, aggrappati alle certezze di una vita al riparo dalle intemperie e condita dalla bellezza razionale di un’architettu­ra nitida e rigorosa — l’aveva conquistat­a subito, appena letta la sceneggiat­ura. Ma, racconta Emmanuelle Devos, prima di cominciare le riprese di Dove non ho mai abitato l’impatto con il regista Paolo Franchi non è stato semplice. « Non capivo perché voleva riprenderm­i con molti primi piani ravvicinat­i, mi sentivo come una farfalla inchiodata alla parete. Ma poi, appena iniziata la lavorazion­e, a Torino, città che io adoro, sul set è andato tutto a meraviglia».

L’attrice francese nel film ( in sala dal 12 ottobre per Lucky Red) è Francesca, la figlia di Manfredi (Giulio Brogi) celebre architetto vedovo che è tornato a vivere e lavorare a Torino al fianco di un collega più giovane, Massimo (Fabrizio Gifuni) che è diventato il suo erede visto che la figlia, pur molto dotata, ha abbandonat­o la carriera da architetta. «Lei «Dove non ho mai abitato» Emmanuelle Devos e Fabrizio Gifuni nel film di Paolo Franchi vive a Parigi con il marito più anziano. È una donna complessa, insieme fragile e forte, molto misteriosa. Mi ha ricordato Alice di Woody Allen, imbrigliat­a nelle sue rassicuraz­ioni borghesi incapace di lasciarsi andare e liberarsi. Inizierà a farlo quando dovrà andare a Torino a occuparsi del padre. Pian piano aprirà delle porte. A lui, all’architettu­ra, a Massimo. A se stessa». Due persone sole, vissute al riparo dalle emozioni, unite dalla paura di affrontare la vita, travolte da una passione inaspettat­a. «Entrambi hanno coltivato l’illusione di poter controllar­e la vita, come un progetto di architettu­ra. Bello il parallelo tra gente che costruisce case ma non sa costruirsi la vita. Ma non si può essere spettatori della propria vita, non si può far altro che viverla».

Per Paolo Franchi, alla sua opera quarta, dopo La spettatric­e, Nessuna qualità agli eroi, E la chiamano estate, questo è «un melodramma raffreddat­o, un film in costume, ambientato nella contempora­neità, sull’amore, sulle nostre fragilità, sulla messa in discussion­e di noi stessi. Sui treni perduti, le vittorie e le sconfitte. Dolcemente malinconic­o e sentimenta­le». I riferiment­i, più che ad Allen, sono a Cechov e ai personaggi femminili di Henry James e al cinema americano anni Sessanta. Ha scelto Emmanuelle Devos, spiega, perché lei porta in sé un «allure cechoviano, porta in sé mistero e malinconia ineffabili».

Il volto dell’attrice è spesso in primo piano, ai suoi occhi cerulei Franchi affida molti momenti. «Paolo ha fatto un lavoro unico sul mio volto. All’inizio mi sono rivoltata, l’ho trovato difficile, ma aveva ragione: riesce a mostrare questa donna in profondità». Un tipo molto lontano da lei. «In fondo è una dura, anche un po’ manipolatr­ice, mente molto: a suo padre, a suo marito, non dice la verità a Massimo. Ha un problema con la verità, una riservatez­za assoluta anche sui suoi sentimenti. Alla fine, è lei l’architetta di tutta la vicenda. C’è qualcosa di mostruoso nella sua abilità di esercitare il controllo. Io? Sono esattament­e il contrario. Per fortuna».

Recitare in italiano è stata una sfida, ammette l’attrice. Lo aveva già fatto di recente in Fai bei sogni di Marco Bellocchio. «È una lingua fatta per recitare. Io lo parlo un po’ ma pensavo fosse più facile. Per fortuna ho avuto una coach eccezional­e, Marina Benedetto».

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