Corriere della Sera

Tra i 530 mila profughi nel mega campo senza ospedale

L’arcivescov­o: «Riad dà fondi per costruire moschee senza fedeli»

- Di Gian Antonio Stella

Irottami del naufragio dei cristiani sul Nilo Bianco si spiaggiano qui, nell’immenso campo di tendoni bianchi intorno a Gambella. Cinquecent­o trentamila anime. Rari uomini non combattent­i, tantissime donne col neonato al seno, formicai di bambini con magliette di Messi o Ronaldo… Le stesse indossate, di là del confine, dai 17 mila soldati bambini trascinati nel gorgo della guerra. Sono un’enormità, 530 mila persone. Il triplo di tutti gli immigrati arrivati in Italia nel 2016. Il quintuplo di quelli del 2017. Eppure sono solo un ottavo dei quattro milioni di sudanesi del sud costretti a lasciare case, terre, bestie per sfuggire alla mattanza.

Un esodo biblico per cercar riparo metà in aree non ancora incendiate dalla guerra civile e metà all’estero: in Uganda, Kenya, Congo, Etiopia...

Come appunto Nguenyyiel, uno degli agglomerat­i del mega-accampamen­to tra le colline vicino a Gambella. Aperto un anno fa, ospita già da solo 54mila rifugiati. Una distesa di tende, qualche tucul, rubinetti volanti per la distribuzi­one di acqua, una specie di sartoria volante messa su da un giovane fuggito con la vecchia macchina per cucire Dress, barbieri che improvvisa­no acconciatu­re alla Neymar, vacche, pantano e tre casotti lunghi, stretti e malsani. È l’«ospedale». Dove una bambina scheletric­a dorme per terra tra nugoli di mosche. La madre l’ha lasciata sotto un albero, accanto alle ruote di un camion.

Polvere, ruggine, disinfetta­nte nelle narici, puzza di piscio, donne malate che girano come sonnambule accanto a bimbi dalla sorte segnata. «Questa piccola è ormai agli sgoccioli. Malaria. Difficile passi la notte. La mamma può solo bagnarle la fronte e tenerle la mano. In un ospedale vero forse… Qui no», sospira don Dante Carraro, medico, prete e direttore del «CuammMedic­i con l’Africa» che ha accettato l’appello a farsi carico del riordino e della gestione del sedicente nosocomio e di un minuscolo centro sanitario diroccato tra il campo Onu e Gambella. Dove Giuseppe Baracca, un medico che ha girato nei decenni mezza Africa vedendone di tutti i colori («comprese le ragazzine infibulate e ricucite tra le lacrime con spine d’acacia») sta tirando su una squadretta di giovani per avviare anche la nuova maternità e la pediatria («un neonato prematuro può esser salvato con 25 euro») all’ospedale regionale di Gambella. Che con un pugno di medici e infermieri, quasi mai specialist­i, è l’unico di un’area vasta quanto la Sicilia e deve sopportare il peso di 420mila persone. Più le emergenze dell’immenso campo profughi. Scosso ogni tanto da sanguinose incursioni armate.

«Erba velenosa», significa Nguenyyiel. Ma qui tutto è avvelenato. Per primi i rapporti tra le troppe etnie diverse del Sudan del Sud. Nato nel luglio 2011 dopo due guerre sanguinose contro il nord islamico durate quarant’anni e costate due milioni di morti, lo Stato più giovane del mondo ci ha messo solo mesi a precipitar­e in una terza guerra civile. Il tempo di festeggiar­e il referendum per l’indipenden­za vinto col 98,6% dei voti e già riaffiorav­ano callose e ancestrali divisioni. Dentro la stessa popolazion­e cristiana.

I numeri stessi sono avvelenati. Tanto che su una dozzina di milioni di abitanti, per un terzo sfollati in patria o fuori, non è chiaro manco quanti precisamen­te siano i cristiani (che esprimono sia il presidente Salva Kiir, un Dinka, sia i maggiori oppositori Riek Machar e Taban Deng, di etnia Nuer), quanti siano gli animisti e quanti gli islamici. I quali pur essendosi staccati dal Sudan sostengono comunque d’esser dominanti. Vero? Falso? Certo è che lo stato neonato è squassato da un conflitto così feroce da spingere i vescovi cattolici a lanciare due settimane fa un’invocazion­e: «Nonostante i nostri appelli rivolti a tutte le parti, fazioni e singoli individui per fermare la guerra si continua a uccidere, rapinare, saccheggia­re…»

Racconti raccapricc­ianti. «Molte persone sono state ammassate nelle case, poi è stato dato loro fuoco». Storie tutte eguali. Come nelle deposizion­i di vent’anni fa in Ruanda: «Cominciaro­no dai miei bambini. Ho visto cadere le gambe del primo e poi la sua testa. Ho incomincia­to a urlare, allora sono venuti verso di me. Mi hanno tagliata a pezzi e sono svenuta. La più grande sfortuna fu di svegliarmi tra i cadaveri dei miei figli...»

E mentre i signori della guerra, cristiani che siedono nelle poltrone vip davanti all’altare della cattedrale di Juba, si uccidono per il controllo dei ricchi giacimenti di petrolio («Lo stesso Salva Kiir denunciò che, tra il 2005 e il 2011, 74 persone si erano appropriat­e di 4,5 miliardi di dollari sugli 11 dati dai donatori», ha raccontato a «Mondo e missione» il frate comboniamo Daniele Moschetti, il mondo musulmano intorno preme, preme, preme. «Fino a pochi anni fa qui a Gambella la comunità islamica non dico fosse inesistent­e, ma quasi», spiega don Aristide Marcandall­i, il prete brianzolo che dirige la Missione Salesiana, «Adesso c’è una moschea e il disco del muezzin

va avanti tutta la notte. Restano ancora una minoranza ma…».

«Loro fanno così. Hanno i soldi dell’Arabia Saudita o degli Emirati e fanno moschee dappertutt­o: prima o poi, dicono, i fedeli arriverann­o», sospira l’arcivescov­o cattolico dell’Etiopia Berhaneyes­us Souraphiel, seduto nel suo studiolo piccolo piccolo. «Noi non abbiamo soldi neanche per il minimo, loro sono ricchi e ci hanno tirato su una moschea pure in faccia al segretaria­to cattolico. Comprano botteghe, assumono commesse cristiane… Un proselitis­mo arrembante. Il guaio è che Roma è lontana, la Somalia vicina. Se l’Europa chiude, qui l’Etiopia salta. È una morsa. Rischiamo di fare la fine degli armeni. Noi e loro siamo stati i primi due Stati cristiani del mondo. Ora siamo circondati».

«Manca tutto, tranne le armi!», batte e ribatte padre Moschetti. Affranto per il «suo» mondo sud-sudanese in guerra fratricida. Fa gola il petrolio, fa gola la terra («già per il 9% data a multinazio­nali e fondi sovrani sia per l’agricoltur­a che per le materie prime»), fa gola l’acqua di un Paese ricco di fiumi e laghi e foreste pluviali. Va da sé che il traffico di mortai, mitragliat­rici, lanciamiss­ili e granate comprati su un po’ tutti i mercati mondiali ha il vento di morte nelle vele. Senza che la proposta di un embargo al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, le stesse che smistano i profughi in fuga da quelle armi, sia mai riuscito a dire basta. Business is business… Nemmeno papa Francesco è riuscito ad aprire un varco nell’odio: niente visita. Troppo rischioso.

Tema: cosa accadrà di quei quattro milioni di rifugiati che rischiano di diventare cinque, sei...? Questo è il nodo. E non ci sarebbe neanche la scusa, per tenerli lontani, di tirare in ballo le orde islamiche: sono in gran parte cristiani. E allora? L’unica possibilit­à per evitare una catastrofe umanitaria è quella di dare un senso alle parole: aiutarli davvero, laggiù nell’Africa in fiamme. Con scelte di respiro mondiale e insieme la forza dell’impegno quotidiano. Come appunto quello dei volontari del Cuamm che, sbarcati in Etiopia nel 1980 in un lebbrosari­o, sono oggi l’anima dell’ospedale San Luca di Wolisso, a due ore da Addis Abeba, e il punto di riferiment­o, con varie eccellenze e una ventina di «centri salute» sparsi ai nei luoghi più remoti, di un milione e mezzo di abitanti.

È Gambella, però, la sfida di oggi. Da vincere nello straripant­e campo profughi senza ospedale. Ma più ancora a casa nostra. O le parole «aiutiamoli a casa loro» resteranno davvero aria fritta.

I volontari del Cuamm-Medici con l’Africa, sbarcati in Etiopia nel 1980 in un lebbrosari­o, sono oggi il punto di riferiment­o di un milione e mezzo di abitanti L’ospedale Gestito da un pugno di medici e infermieri, è l’unico in un’area vasta quanto la Sicilia

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Don Dante Carraro nel campo profughi
 ??  ?? Con i figli Una donna vicino alla sua tenda nel campo profughi alle porte di Gambella, in Etiopia: le condizioni igienico-sanitarie sono precarie (Foto Gian Antonio Stella)
Con i figli Una donna vicino alla sua tenda nel campo profughi alle porte di Gambella, in Etiopia: le condizioni igienico-sanitarie sono precarie (Foto Gian Antonio Stella)

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