«Uccise mio fratello nel giorno in cui si era comprato l’Alfasud I veri proletari eravamo noi»
MILANO Maurizio Campagna, cosa si aspetta dalla nuova svolta del caso Cesare Battisti, condannato all’ergastolo per l’assassinio di suo fratello Andrea nel 1979?
Giustizia «Non voglio vendetta ma giustizia: torni e paghi, fosse anche un mese di carcere»
«Esiste una giustizia italiana. Ad alcuni piace ad altri no. Ecco, io vorrei semplicemente che Cesare Battisti tornasse qui per regolare i suoi conti con questa giustizia: un mese o 13 anni, quello che verrà stabilito. Non chiedo altro».
Maurizio Campagna ha 56 anni, un lavoro alla Telecom, una moglie e un figlio di 18 anni. Esattamente la stessa età che aveva lui quando, nel primo pomeriggio del 19 aprile 1979, suo fratello Andrea fu freddato con cinque colpi di 765 magnum. Aveva 24 anni, lavorava in polizia, alla Digos di Milano. Faceva l’autista, ma nella rivendicazione firmata Pac (Proletari armati per il comunismo) veniva definito «torturatore di proletari». Per quel delitto Cesare Battisti è stato condannato all’ergastolo in contumacia, perché quattro anni prima era evaso dal carcere di Frosinone. Ma anche da latitante non è mai uscito dalla vita di un figlio di una famiglia di immigrati calabresi.
Come ricorda quel giorno?
«Era il 19 aprile, io avevo compiuto i 18 anni il 16 e quello era il terzo giorno delle visite per il servizio militare. Non ero andato a scuola e avevo pensato di raggiungere Andrea a casa della sua fidanzata Cecilia, perché aveva appena ritirato la sua prima auto, una Alfasud di seconda mano, e speravo di poterla provare. Però c’era anche la novità della televisione a colori, così ho deciso di andare a casa».
E per questo non è andato in via Modica?
«Esatto. Lì c’era il padre di Cecilia e fu lui poi a riconoscere Cesare Battisti. Lo rincorse e non si beccò un proiettile soltanto perché l’arma era ormai scarica. Battisti ha sempre rifiutato il confronto all’americana con lui».
Come vive le notizie che stanno arrivando in questi giorni dal Brasile?
«Guardi, vado ogni anno a visitare la tomba di mio fratello in Calabria e faccio parte del direttivo dell’Aviter, l’associazione delle vittime
del terrorismo: questa vicenda mi riguarda eccome, quindi la seguo da vicino. Sono in contatto con alcuni giornalisti brasiliani ma non ho smania di vendetta».
E qual è il suo atteggiamento?
«Sarò soddisfatto se mio figlio diciottenne vedrà completare il percorso della giustizia per l’omicidio dello zio che non ha mai conosciuto e che lavorava in polizia per portare uno stipendio in una casa di veri proletari».
C’è un ostacolo: in Brasile l’ergastolo è incostituzionale.
«Ma noi lo abbiamo soltanto sulla carta. Ditemi quale terrorista ha scontato mai il carcere a vita? E al compimento dei 75 anni si viene scarcerati, quindi anche Battisti, nella peggiore delle ipotesi, uscirebbe dopo 13 anni. Gli altri dei Pac, sono tutti fuori da tempo e nessuno di noi familiari delle vittime ha mai obiettato. Certo, sarebbe bene che non andassero a parlare ai convegni...».