Corriere della Sera

LA SCONFITTA DELLO IUS SOLI E GLI INTERROGAT­IVI SUI DIRITTI

Svolta È stata frenata l’integrazio­ne non di chi sta arrivando sui barconi ma di chi è già tra noi da dieci o vent’anni: solo un terzo di questi sono islamici

- di Goffredo Buccini

Lo ius soli è (quasi) morto. E sembra assai difficile che a rianimarlo basti lo sciopero della fame di Graziano Delrio assieme a un gruppo di parlamenta­ri e comuni cittadini raccolti attorno all’appello dei Radicali e di Luigi Manconi.

Salvo veri colpi di scena, il diritto a essere italiani di ottocentom­ila bambini e ragazzi nati o cresciuti tra noi non verrà riconosciu­to in questa legislatur­a perché non ha più maggioranz­a nel Paese prima ancora che al Senato. Troppo stretta la finestra d’intervento nell’iter della legge di Stabilità; troppo alto il rischio che, aprendola davvero, si abbattano venti di tempesta sul governo Gentiloni (di cui peraltro Delrio fa parte). Ma è bene sgomberare il campo dagli equivoci. Lo ius soli nostrano (certo migliorabi­le ed emendabile, ma già assai temperato e accompagna­to dallo ius culturae) non è stato abbattuto dal sovranismo di Matteo Salvini o dai ripensamen­ti di Angelino Alfano. E neppure dal pragmatism­o un po’ cinico del Pd. Nemmeno la crisi economica e le ondate di sbarchi sono state forse determinan­ti, perché il nostro Paese, al dunque, si era in passato sempre dimostrato capace di aprire le braccia ai più deboli, condividen­do ciò che aveva.

Diciamolo chiaro. I diritti dei giovani italiani di seconda generazion­e sono stati vittime del terrorismo jihadista. Sei anni fa, il 71 per cento dell’opinione pubblica era favorevole allo ius soli. Gli ultimi sondaggi danno questa quota poco sopra il 40 per cento: un crollo senza precedenti. In mezzo ci sono stati gli attentati in Europa che, da Charlie Hebdo in poi, hanno assunto cadenza quasi mensile, mietendo centinaia di vite innocenti nelle nostre strade e insinuando in ciascuno di noi il timore dell’altro, specie quando l’altro proviene da una cultura aliena e spesso ostile come è stata a lungo nella storia d’Italia la cultura islamica. Perfettame­nte comprensib­ile, dunque, il rovesciame­nto del sentimento collettivo che sull’anemica politica di questi tempi pesa, attraverso i sondaggi, assai più delle idee, giuste o sbagliate che siano. L’assassino di Marsiglia urlando «Allah u Akbar» sposta più di mille analisi e concioni. Ma una politica saggia dovrebbe serbare la capacità di toccare i cuori e le menti di una comunità, non inseguirne la deriva emotiva.

Infatti se esiste un nesso tra gli attentati terroristi­ci in Europa e lo ius soli è un nesso al contrario: è intuitivo che a maggiore integrazio­ne corrispond­a minor «rischio banlieue», meno sacche di rancorosi esclusi nelle nostre periferie, e zero o quasi zero rischio multicultu­rale poiché nell’impianto normativo italiano non sarebbero riconosciu­te sacche di ambiguità «all’inglese», con la sharia infilata di soppiatto a regolare i rapporti privati.

Ai nuovi concittadi­ni si sarebbe chiesto di giurare sulla Costituzio­ne, di conoscere la nostra lingua, di fare da ponte con le loro famiglie, migranti di prima generazion­e, rendendole a noi più prossime e comprensib­ili. In cambio si sarebbe dato loro ciò che oggi non hanno, pur vivendo nelle case e nelle scuole d’Italia sin da bambini: la possibilit­à di partecipar­e a concorsi pubblici e iscriversi ad albi profession­ali senza intoppi, di gareggiare col tricolore sul petto, di non essere costretti ad attendere dai quattro ai sei anni (questi sono i tempi veri, raccontano in molti, e con file estenuanti all’ufficio stranieri della questura) per ottenere forse, infine, l’agognato passaporto.

È assai probabile che tutto ciò non succederà, colpendo l’integrazio­ne non di chi sta arrivando sui barconi ma di chi è già tra noi da dieci o venti anni. Il fatto che la componente islamica rappresent­i soltanto un terzo della platea dello ius soli (ci sono cattolici, ortodossi, buddhisti e, immaginiam­o, …atei) aggiunge un tocco di surreale ingiustizi­a al quadro. La compressio­ne dei diritti individual­i e delle soggettivi­tà dentro macro-categorie spirituali (l’orientamen­to religioso del Paese d’origine pare assorbire l’identità personale come se non fossero passati quattro secoli e mezzo dal «cuius regio eius religio» che attribuiva al suddito la fede del suo signore) suona infine come una abdicazion­e ai principi liberali.

Tant’è. Per superare ciò che in casa Pd chiamano realpoliti­k ma somiglia assai a una navigazion­e a vista, occorrereb­be non uno sciopero della fame ma un politico così forte e credibile da poter dire ai suoi concittadi­ni: fidatevi di me e seguitemi, la strada giusta non è quella che voi credete. La più prossima a questo identikit è Angela Merkel, e persino lei ha pagato un altissimo prezzo elettorale alle sue aperture sui rifugiati siriani. I nostri politici continuano a ispirarsi a quel fantastico caleidosco­pio dei caratteri italici che ci donò Manzoni: «Il buonsenso c’era; ma se ne stava nascosto, per paura del senso comune». Si parlava di peste e untori, pare scritto ieri.

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