SU LICINI LE CORNACCHIE ORA TACCIONO
Èpossibile sintetizzare in 8 dipinti e altrettanti disegni l’avventura artistica di un pittore, soprattutto se è passato dal figurativo all’astrazione geometrica, sino alla creazione di «creature fantastiche». Sì, come dimostra questa piccola rassegna dedicata a Osvaldo Licini (1894-1958), nello studio dell’artista, a Monte Vidon Corrado (provincia di Fermo). Curata da Daniela Simoni (sino al 5 novembre) e intitolata Licini dal lapis alla tela (1926-1956), presenta lavori di piccolo formato, a parte un Ritratto di Nella del 1926, cui ha rimesso mano nel ’31, poco prima di esporlo, assieme a due nature morte, alla mostra Novecento italiano, curata da Margherita Sarfatti alla Konsthall di Stoccolma. «Il ritratto di fanciulla italiana magra, con una grande testa informe, trasmette una tenerezza un po’ decadente ma molto umana», scrisse allora lo «Stockholms-Tidningen». E il «Social-Demokratern»: «Licini è uno dei migliori coloristi di questa mostra e fa parte di quel gruppo di artisti liberi, allievi dell’espressionismo di Matisse […]. Dipinge con colori grigi e verdi, colori quasi malati, ma raffinati, come nel Ritratto di Nella». La protagonista, cui Licini ha dedicato altri quadri e disegni, era una ragazzina del suo paese natale.
Non mancano le sorprese. Esposti alcuni disegni inediti e, per la prima volta, un piccolo olio, Croci viventi, dipinto 5 anni prima della morte, di cui si aveva notizia solo perché incluso nella monografia di Giuseppe Marchiori, I cieli segreti di Osvaldo Licini (1968). Naturalmente non potevano mancare le Amalassunte, L’olandese volante, i fiori fantastici e, soprattutto, gli Angeli ribelli. Tutta l’esistenza di Licini è passata sotto il loro segno. Non importa se angeli tradizionali o angeli ribelli, angeli da sacrestia o angeli volanti, angeli-serpenti o angeli notturni.
Nato a Monte Vidon Corrado, sino al 1914 Licini studia all’Accademia di Bologna, assieme a Giorgio Morandi. Entrambi amano Cézanne. Dal maestro francese, Licini apprende a dipingere con un velo di colore. Morandi, invece, che vede le sue opere ne Gli impressionisti francesi di Vittorio Pica (1908), ne copia l’impostazione in alcuni lavori. Entrambi sono attratti dalla poetica futurista e partecipano alle serate di Marinetti. «Ci siamo abbeverati al primo Cubismo e abbiamo combattuto per il Futurismo», annoterà Licini. Altri punti in comune? Tanti, fra cui l’entusiasmo per le novità e la caparbietà che unisce i giovani che cominciano a misurarsi con la vita.
Dal ’14 al ’17 Licini si trasferisce alle Belle arti di Firenze. Nel ’16 parte volontario per il fronte; ferito, rientra a Firenze. All’ospedale militare incontra un’infermiera svizzera con cui avrà il figlio Paolo. L’anno dopo è convalescente a Parigi (dove i suoi genitori si sono trasferiti nel 1902, affidandolo al nonno). Nella capitale francese incontra Picasso, Cocteau, Cendrars, Kisling. E Modigliani, che gli fa un ritratto («La nostalgia dell’Italia, mio primo amore, mi avvicina a te»). Ma il disegno andrà distrutto, nel 1920, nell’incendio del studio di via Landino, appiccato da «una donna che mi ha amato e odiato». L’ultimo dipinto è un Angelo del ’58, anno in cui Licini se ne va. Un paio di mesi prima, l’artista ha vinto il Gran premio internazionale per la pittura alla Biennale di Venezia (nella sala allestita da Carlo Scarpa, con 53 lavori). Non senza polemiche. Da una parte, le stroncature di Giannelli, Kaisserlian, Borghese; dall’altra, le esaltazioni di Binni, Valsecchi e della Bucarelli («Lasciamo che le cornacchie strillino»). Il tempo le ha dato ragione.