A FIL DI RETE
«Suburra» e il lato oscuro di Roma: una serie dal respiro internazionale
«La Suburra, questo posto non cambia da duemila anni: patrizi e plebei, politici e criminali, mignotte e preti… Roma». Il nominabile attuale della Città Eterna vien dunque da lontano: gli intrighi, la dissoluzione, i vizi capitali, le speculazioni edilizie, le perversioni da sempre abitano e agitano la città e ne scandiscono l’autoannientamento.
La prima serie italiana prodotta da Netflix ha scelto di raccontare il lato oscuro di quella che un tempo era definita Caput mundi: dieci episodi prodotti da Cattleya con il concorso di Rai Fiction (un buon segnale!). La serie è una sorta di prequel del film diretto da Sergio Sollima, 2015, entrambi ispirati al romanzo omonimo di Giancarlo De Cataldo e Carlo Bonini.
Il racconto ruota attorno a tre giovani: Aureliano Adami (Alessandro Borghi), Alberto «Spadino» Anacleti (Giacomo Ferrara) e Lele (Eduardo Valdarnini) tentano di farsi strada in mezzo alla malavita romana, ma cercano soprattutto di trovare una loro personalità, anche interiore visto che si portano dietro inquietudini profonde (il complesso della madre morta, l’identità sessuale, il disagio sociale…). «Suburra» si colloca a metà strada fra «Romanzo criminale» e «Gomorra» e ne condivide molte professionalità. Dal primo deriva la descrizione spietata della criminalità romana (che piace molto al magistrato De Cataldo), una rappresentazione che a volte cade nel grottesco (tutta la parte sugli zingari sembra un divertente capitolo de «Il boss delle cerimonie») e nel kitsch sanguinario. Dal secondo, il congegno narrativo (da «binge-watching») capace di ben supportare sia l’intreccio degli eventi sia l’evolversi delle singole psicologie. Ma la parte più interessante riguarda certamente l’aspetto produttivo: è di qui che passa la serialità e il cinema del futuro. Dal coraggio degli investimenti, dalla scelta dei temi, dal respiro internazionale dell’offerta.