Corriere della Sera

DIEGO ABATANTUON­O

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Gli esordi Al Derby c’erano Cochi e Renato, Massimo Boldi, Giorgio Faletti. Ma il miglior battutista si chiamava Er Bistecca, uno che le sparava al bar senza salire sul palco

Mediterran­eo Da copione, era un film più riflessivo. Le battute le ho portate io e abbiamo tagliato i colloqui immaginari tra il tenente Montini e Socrate faceva l’alba, si parlava di donne, ma ci sono mille modi di parlarne. Se Dario ne citava una, era una regina che aveva fatto teatro, canzoni. Dario era ventidue volte più colto di tutti noi. Una sera, con Umberto Smaila e Ninì Salerno, gli facemmo assaggiare tre tipi di vino e di ognuno azzeccò vitigno, bouquet e anno».

Lei è un tiratardi anche oggi?

«Di notte leggo, guardo la television­e, chiacchier­o con chi c’è. Non mi è mai piaciuto aspettare il sonno».

Che ha contro l’attesa del sonno?

«Sono figlio unico e, da piccolo, la notte i miei stavano fuori e non mi piaceva sentirmi solo. A letto, col buio, aspettare il sonno è un po’ come aspettare la morte».

Le fa paura la morte?

«A nessuno mette allegria. Tantomeno se hai avuto una vita bella come la mia. Più che altro, però, a me non piace la decadenza fisica. Ho appena doppiato Robert Redford in “Earth”, un documentar­io della Bbc sulla natura, negli ultimi cinque anni ho fatto dieci film, ma per me che andavo a 200 all’ora, adesso che vado a cento, mi sento fermo».

Fra l’80 e l’82, di film ne girò diciassett­e.

«Troppi. Un manager serio, dopo il primo incasso da sette miliardi, m’avrebbe detto “stai fermo un anno”. Invece, io fui spremuto, il terrunciel­lo si esaurì e il mio manager fece sparire i soldi messi da parte per le tasse».

Fu ingenuo.

«Non sapevo nulla di quel mondo. A venticinqu­e anni, credevo di essere diventato ricco. L’ultima estate fu bellissima. Avevo affittato una villa in Sardegna, invitato gli amici. Arrivò Robert De Niro: stava a Roma su un set e aveva chiesto alla produzione un posto per le vacanze dove nessuno se lo filasse. Infatti, noi non parlavamo la lingua e stavamo sempre a cantare per conto nostro».

Come si riprese?

«Per pagare i buffi, dovetti fare serate su serate. Mi faceva da road manager Maurizio Totti. Poi, io lui e Gabriele Salvatores fondammo la Colorado, che è diventata una società di produzione importante. Nel periodo nero, dicevo, ma tanto per dire: ci vorrebbe che mi chiamasse Pupi Avati».

Avati la chiamò davvero, arrivarono i ruoli drammatici.

«Feci

Regalo di Natale

e vinsi il Nastro D’Ar-

Diego Abatantuon­o ha esordito con il cabaret al Derby di Milano. Negli anni 80 ha successo con il personaggi­o del «terrunciel­lo». Nel 1986, la svolta drammatica con Regalo di Natale di Pupi Avati

● Nella sua carriera ha girato cento film, fra cui Mediterran­eo (nella foto) di Gabriele Salvatores, che ha vinto l’Oscar nel ‘92

● A febbraio, sarà in Matrimonio Italiano di Alessandro Genovesi, e in primavera sarà il doppiatore del documentar­io della Bbc Earth: un giorno straordina­rio gento. Poi mi vollero Luigi Comencini, Giuseppe Bertolucci, Carlo Mazzacurat­i... Nel Segreto del Sahara di Alberto Negrin ero l’unico italiano fra Ben Kingsley, Michael York, Andie MacDowell».

Avati diceva che lei somigliava a Tognazzi.

«A volte, si sbagliava e mi chiamava Ugo. Tognazzi, come me, amava le tavolate, ma lui andava pazzo per i piatti sofisticat­i. Una volta, quasi uccise il maggiordom­o che aveva servito già a fette un dolce che era una scultura a forma di tacchino».

Dei grandi che non ci sono più chi le manca?

«Ettore Scola è vuoto vero. Ci telefonava­mo per gli auguri non a Pasqua o a Natale, ma il 25 aprile e il primo maggio».

L’incontro con Salvatores?

«E chi se lo ricorda… So che era a cena qui l’altra sera. Guardi questa foto…».

Che cos’è?

«Siamo io, lui, la mia ex moglie Rita e Fabrizio Bentivogli­o. Io e Rita ci stavamo lasciando, avevo conosciuto Giulia, la mia attuale compagna, ma ci tenevo che Rita trovasse qualcuno a posto e le portavo a casa gente di cinema».

A Rita piacque Salvatores, non Bentivogli­o.

«Stanno insieme anche loro da trent’anni. È stata una fortuna: in tutti i film girati con Gabriele, arrivava Rita con Marta. Erano anni diversi, s’andava per sopralluog­hi, c’era più tempo, non c’erano i telefonini. C’era più concentraz­ione: fatti oggi, certi film non sarebbero venuti uguali».

In «Mediterran­eo» cosa non sarebbe venuto uguale?

«Da copione, era un film più riflessivo. Le battute le ho portate io e abbiamo tagliato i colloqui immaginari fra il tenente Montini e Socrate».

Un rimpianto?

«Un film mai fatto con Massimo Troisi: dovevamo essere due camerieri italiani in America presi in ostaggio con gli avventori del ristorante, ma Massimo morì prima».

Perché porta questa grossa barba da mangiafuoc­o?

«Perché ho avuto una gran vita, ho figli splendidi, sono nonno, ho fatto quello che volevo e ho tanti amici cari: non ho motivi per fare il finto giovane».

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