Il ritorno al «Fila» per ritrovare certezze e sorrisi
Cairo: «Spero sia un’iniezione di ottimismo»
DA UNO DEI NOSTRI INVIATI
Bisogna fare uno sforzo. Chiudere gli occhi e immaginare quasi 40 mila persone aggrappate attorno a questo rettangolo verde, sui gradoni di cui restano ancora alcune vestigia, belle come quelle di un tempio antico. Per i bambini delle scuole calcio, che fotografano gli azzurri con smartphone più grandi di loro, gli Invincibili che hanno scritto la leggenda al Filadelfia sono qualcosa di remoto. Ma la Nazionale, che è tornata qui dopo 86 anni, deve fare uno sforzo, doppio: respirare l’aria del mito, tornato a vivere il 25 maggio, e riempirsi gli occhi e le orecchie con la spensieratezza dei suoi piccoli tifosi. Dal gol di Cesarini del 13 dicembre 1931 contro l’Ungheria (quello del 3-2) quasi a tempo scaduto, da cui nacque la mitica «zona Cesarini». Alla gioia di Thomas, che si porta a casa un guantone lanciato da Donnarumma. Dall’epopea del Grande Torino, narrata ovunque nel nuovo Fila che da ieri avrà anche lo stemma della Nazionale con la data del 7 ottobre, agli orecchini con lo stemma del Toro di due allenatrici (gemelle) che accompagnano i più piccoli. I dettagli del presente si confondono con le suggestioni del passato. Ma il futuro lo deve scrivere la squadra di Ventura, che questo campo lo ha visto rinascere. Anche lui, adesso deve fare uno sforzo: «Deve fare il Ventura — dice il presidente del Torino, Urbano Cairo —. Cioè deve essere se stesso: questa squadra se vuole ambire a qualcosa deve innestare una marcia diversa e credo assolutamente che possa farlo. Speriamo che vedere tutti questi bambini contenti e positivi, dia un’iniezione di ottimismo a tutti. Ho visto gli azzurri arrivare un filo tristi e andare via col sorriso. È stata una bellissima festa: speriamo che questo terreno speciale possa trasmettere qualcosa ai giocatori».
La terapia del Fila arriva al momento giusto per una squadra incompleta e sfiduciata.
L’ultima partita degli azzurri al Filadelfia risale al 13 dicembre 1931: Italia-Ungheria 3-2. Decise un gol al 90’ di Renato Cesarini: da quel giorno il finale divenne la «zona Cesarini». Nella foto: Combi, Costantino, Rosetta, Orsi, Cesarini, Bertolini, Libonatti, Ferrari, Ferraris, Monzeglio, Pitto, Sclavi e il c.t. Pozzo. (Getty Images)
La chiusura del cerchio sarebbe stata la presenza di un giocatore antico eppure moderno come Belotti, capitano del Toro, esploso in granata con Ventura e ora punto fermo dell’attacco azzzurro: «È vero — riconosce Cairo — ma Andrea ha doti di recupero notevolissime: si è fatto male l’1 ottobre, hanno detto 4 settimane di stop, quindi perché no? Può dare una grossa mano a questa Nazionale».
Perché i nomi sono importanti. Basta leggere quelli delle colonne granata che svettano nel nuovo Filadelfia, da Bacigalupo a Mazzola, da Loik a Gabetto. Ma è questo spirito bambino che aleggia nell’aria, quello che devono ritrovare l’Italia e il suo allenatore. Dov’è finito «mister libidine», che provava gioia fisica quando le sue squadre facevano «frullare» la palla? Sta piantato in mezzo al campo a vedere gli esercizi dei suoi ragazzi: qui una volta tremavano le tribune, adesso tremolano le gambe di un gruppo che ha perso certezze. Né Cesarini né gli Invincibili possono farci niente. Ma questo entusiasmo gratuito e un po’ incosciente, così nuovo e così eterno, in qualche modo può aiutare. Uno sforzo però bisogna farlo.
Cairo Ventura deve fare il Ventura, deve essere se stesso