Corriere della Sera

Campione vero troppo spesso sottovalut­ato

- Di Cristiano Gatti

Se si parla di sport italiano, dell’eccellenza di questo specifico made in Italy, tutti quanti siamo subito portati a declinare il meglio nei nomi di Valentino Rossi, Federica Pellegrini, Gigi Buffon. Pochissimi, diciamo pure ristretti circoli amatoriali, citerebber­o Nibali. Certo un tizio che vuole diventare icona ai giorni nostri senza tatuaggi, senza creste, senza neppure una foto rubata mentre allunga le mani sull’anatomia di una velina, è chiarament­e un velleitari­o. Un illuso. Uno sprovvedut­o. E difatti Nibali non buca. Non piace alla gente che strilla e che sviene fuori dai camerini. Ma il suo limite è solo questo, diciamolo una buona volta. Se vogliamo parlare di cose serie, del reale peso specifico di un campione, regge benissimo ogni altro confronto. Nel ciclismo che geme di lamenti per i campioni col braccino — una corsa all’anno, o in linea o a tappe, poi subito sparizione — Nibali tiene in vita l’idea nobile e immutabile del campione perpetuo. Lo incrociamo nelle classiche di primavera, nei grandi giri, al finale del Lombardia. Naturalmen­te non vince ogni volta, non siamo nel campo del paranormal­e, però vince spesso e quasi sempre ci va vicino. Ha vinto i tre grandi giri, finisce sul podio in quelli che non vince, ha in tasca due Lombardia, gli hanno rubato una Liegi (letteralme­nte: il primo è finito nella rete del doping). Viene da chiedersi che cos’altro debba inventarsi per entrare «nel cuore della gggente». Qualcuno dice il Mondiale, qualcuno dice le Olimpiadi. Ma non lo credo. La mesta sensazione è che gli mancherebb­e sempre un tatuaggio.

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