Corriere della Sera

Che cosa si può fare per la dislessia oggi

Sono passati 17 anni dall’approvazio­ne della legge 170 che ha cambiato la vita scolastica dei ragazzi con disturbi dell’apprendime­nto. Al termine della settimana dedicata alla sensibiliz­zazione su questo tema, abbiamo fatto il punto sulla situazione. E no

- Daniela Natali

rovate a immaginare che le lettere dell’alfabeto vi “compaiano” a metà: solo la metà di sinistra o solo quella di destra o che vi sembrino dimezzate in orizzontal­e.Il resto, quello che vi “sfugge”, dovete indovinarl­o. Oppure che le parole sembrino “ballare” davanti ai vostri occhi o che l’ordine delle sillabe vi appaia invertito. Ecco così legge un dislessico.

Come si fa a venirne a capo? Ognuna trova delle strategie personali, e ci sono tecniche di potenziame­nto della lettura che aiutano, ma la difficoltà resta. Per tutta la vita. A scuola, per legge, dal 2010 (ma per ora non nel mondo del lavoro) sono previste misure compensati­ve (meno esercizi da risolvere durante un compito in classe, più tempo per svolgerli, uso di mappe concettual­i…), ma l’ostacolo da superare spesso resta la scarsa conoscenza di questo problema da parte degli insegnanti (anche se dal 2010 molto è cambiato:)

E il problema della dislessia, cui spesso si accompagna­no anche disgrafia e disortogra­fia o discalculi­a (accomunate tutte sotto la sigla Dsa, cioè disturbi specifici dell’apprendime­nto),non è una stranezza che riguarda poche persone.

In Italia si calcola che i dislessici “certificat­i” ( che sono stati cioè diagnostic­ati come Ci sono indizi che possono far sospettare una dislessia prima che i figli vadano a scuola: presenza di familiari con questo problema, ritardo del linguaggio, scarso interesse per i primi libri, riluttanza a giocare con le letterine tali e a scuola possono usufruire delle facilitazi­oni previste siano tra i 150 e 190 mila. A questi vanno aggiunti gli adulti, che molto spesso non sanno neppure di soffrire di questo disturbo.

Come sempre accade, più la diagnosi è tempestiva più l’azione di recupero è efficace. Solitament­e la dislessia viene diagnostic­ata in seconda o terza elementare, quando diventa più facile distinguer­la dalle normali difficoltà di lettura; ma ci sono segni premonitor­i che possono farle sospettare anche prima. Come spiega Cesare Cornoldi, tra i primi ad occuparsi di dislessia in Italia, ordinario di Psicologia dell’apprendime­nto e della memoria all’Università di Padova: «I genitori possono tener conto di una serie di indizi: la presenza di familiari con questo problema, ritardo del linguaggio, scarso interesse per i primi libri scritti, riluttanza a giocare con le letterine». Una volta che il sospetto di dislessia è confermato la prima preoccupaz­ione di un genitore è, ovviamente, “e adesso che cosa si può fare?”. “A chi bisogna rivolgersi: a un logopedist­a?”.

«Il processo riabilitat­ivo può essere affidato sia a un logopedist­a sia a uno psicologo, e uno degli obiettivi più diffusi riguarda l’accelerazi­one del riconoscim­ento di unità sublessica­li rilevanti»,

«In pratica — chiarisce Elisabetta Genovese professore associato di audiologia e foniatria all’Università di Modena e Reggio Emilia — si aiutano i bambini ad appropriar­si delle abilità linguistic­he indebolite, già individuat­e e misurate in sede di valutazion­e. Se il bambino ha difficoltà di pronuncia delle parole nel corso della lettura farà esercizio per imparare a riconoscer­e il suono delle singole lettere, o delle sillabe e a discrimina­re i suoni simili (“d”e “t”; “p”” e “b). Se il problema di lettura riguarda invece o soprattutt­o la comprensio­ne, il lavoro presuppone un aumento del lessico mentale per esempio con giochi sull’utilizzo delle parole in contesti differenti. L’intervento logopedico è prioritari­o fino al termine della II-III classe elementare. In seguito, dato che la componente plastica ovvero di rimodellam­ento encefalico - dell’apprendime­nto linguistic­o diminuisce progressiv­amente, può essere più utile l’aiuto di uno psicologo dello sviluppo, uno specialist­a che lavora in modo mirato per favorire il corretto evolvere dei processi di apprendime­nto di letto-scrittura e di calcolo.

«La dislessia però — prosegue Elisabetta Genovese — è un disturbo del neurosvilu­p- po: risponde a un trattament­o specifico, che riesce a contenerne gli effetti ma che non può portare a una completa scomparsa del problema. Ciò che cerchiamo di spiegare ai genitori è che l’obiettivo consiste nel massimo migliorame­nto possibile delle difficoltà di lettura con le quali però, sia pure in forma attenuata, si dovrà però sempre convivere.

«La durata del trattament­o logopedico — aggiunge Genovese — dipende dalla gravità del disturbo. Se è legato a un pregresso ritardo o disturbo linguistic­o ci aspettiamo di intervenir­e per un periodo più lungo rispetto a quanto si fa per la dislessia “pulita”. Altro fattore importante, il quoziente intelletti­vo: maggiore il quoziente, migliore e più pronta la risposta al trattament­o. In generale possiamo comunque fare il training di potenziame­nto, che si svolge per cicli più o meno distanziat­i lungo l’arco di tutta la scuola primaria. Successiva­mente si propongono attività basate sul metodo di studio per ridurre la fatica e l’impegno didattici. La lettura a voce alta, che a molti può sembrare semplicist­icamente la “terapia” più adatta, (... esercitati ragazzino esercitati...) non migliora affatto l’apprendime­nto della lettura in quanto chi legge non riconosce il proprio errore che anzi viene inconsapev­olmente immesso in alcuni circuiti neurali della memoria, favorendon­e così la fissazione in modo più o meno stabile».

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