Corriere della Sera

L’ospedale militare italiano che si prende cura dei civili e difende l’intesa con Sarraj

Tra i medici della missione «Ippocrate» a Misurata

- dal nostro inviato a Misurata Lorenzo Cremonesi Corriere TUNISIA

Un ospedale militare per curare la politica libica, piuttosto che i feriti di guerra. Proprio le recenti aperture italiane al generale Khalifa Haftar, l’uomo forte della Cirenaica osteggiato da numerose tra le milizie della Tripolitan­ia, danno ulteriore valenza alle iniziative per contenere il risentimen­to di Misurata.

Pochi in realtà da queste parti vorrebbero la partenza dei medici e infermieri italiani. Il 14 settembre 2016 erano arrivati per contribuir­e ad assistere i combattent­i libici feriti mentre scacciavan­o Isis da Sirte. Oggi però i loro interventi più importanti riguardano le vittime di incidenti stradali e domestici. I casi di ferite per armi da fuoco sono per lo più dovuti a faide familiari. Anche se Isis resta in agguato. Come è stato il 4 ottobre, quando un suo commando suicida ha causato almeno 4 morti e una quarantina di feriti nell’attacco contro l’edificio del tribunale cittadino. Per il resto gli italiani si sono adattati alle esigenze della società civile locale. «Da tempo non registriam­o una grave emergenza bellica. È dai primi giorni del dicembre 2016, quando Isis capitolò a Sirte, che qui praticamen­te non vengono ricoverati nuovi casi di miliziani in lotta contro i jihadisti. I feriti per motivi di guerra si sono concentrat­i nei primi tre mesi di attività, poi sono andati velocement­e scemando. Ma nel tempo siamo diventati un polo medico importante nella regione abitata da circa 450 mila persone», ammettono gli ufficiali al comando dei 300 uomini che compongono la missione «Ippocrate», di cui 50 tra medici e infermieri militari. Gli altri sono soldati addetti alla loro sicurezza e alla logistica. «L’ospedale e la nostra missione non hanno mai subito attacchi», specifica il colonnello Marco Iovinelli, comandante 51enne del Nono Reggimento Alpini con base all’Aquila, che da fine luglio ha assunto il compito di difendere gli italiani. Ufficiali Il colonnello Domenico Alberti, oculista dell’ospedale militare del Celio, e il colonnello Marco Iovinelli, al comando del 9° Alpini

Arrivando al perimetro che segna la vecchia accademia dell’aeronautic­a militare alla periferia della città, uno degli infiniti mausolei polverosi dell’ex esercito di Gheddafi di cui è costellato il Paese, non è difficile cogliere il senso delle spiegazion­i che ci vengono date da Roma. A fare la guardia al cerchio esterno stanno solo miliziani libici, gli italiani all’interno girano disarmati e tengono poche pattuglie in assetto di guerra alla porta di accesso. «Il nostro ospedale ha oggi una valenza più politica che medica o militare. Ma il suo ruolo è fondamenta­le. Serve per tranquilli­zzare e tenerci amiche le milizie di Misurata, che restano una delle forze più importanti a garanzia del governo del premier Fayez Sarraj a Tripoli», confidano al Corriere alte fonti governativ­e italiane. Una scelta che costa annualment­e alle casse dello Stato quasi 50 milioni di euro. Ed è allargata con altri investimen­ti ai punti caldi dell’intero Paese. Nel rispetto dell’embargo Onu contro l’esportazio­ne di materiale bellico in Libia, l’Italia invia aiuti medici anche a Sabratha, Tripoli, Zuwara, Bengasi, Bani Walid. E ciò serve in parte anche per ripagare gli sforzi delle municipali­tà locali e le tribù del deserto contro il traffico dei migranti. Ma a Misurata ha un significat­o particolar­e.

Se infatti era fondamenta­le evitare di inimicarsi questa piccola Sparta libica che tanto si è dissanguat­a contro Isis, ma è anche la grande avversaria di Haftar, allora l’operazione «Ippocrate» funziona. Non Sul sito del le immagini e il video sull’ospedale degli italiani a Misurata, in Libia a caso i ricoveri nella struttura dipendono interament­e da una Commission­e speciale formata dalle autorità cittadine autoctone e legata all’ospedale municipale centrale. «Nessun paziente può rivolgersi a noi in modo indipenden­te. Noi curiamo soltanto quelli che ci manda la Commission­e libica. E spesso in caso di ferite per cause violente non siamo a conoscenza delle circostanz­e in cui queste sono avvenute», spiega il colonnello 54enne Domenico Tripoli Sirte Misurata Bengasi Alberti, che dirige le attività mediche. Una scelta che comunque pare condurre a buoni risultati. «Gli italiani hanno usato l’ospedale con grande oculatezza. A Misurata siamo tutti molto grati della loro presenza. Potrebbe tornare molto utile se dovessimo riprendere a combattere Isis che si sta riorganizz­ando nel Sud del Paese. Il risultato politico è che le nostre forze militari sono rimaste con Sarraj anche quando l’Italia lo ha spinto a negoziare con Haftar per la creazione di un governo unitario. Non che oggi noi si accetti interament­e quel dialogo. Haftar resta un nostro avversario temibile. Però adesso siamo più possibilis­ti, meno decisi ad escluderlo da qualsiasi compromess­o interno», spiega Mohammad Elsabti, dirigente che coordina le milizie di Misurata.

L’ambiente è pulito, ben tenuto, l’unità del Genio ha riparato i danni alle palazzine della vecchia base. Durante la nostra permanenza tra le tende dove sono situate due camere operatorie, il centro radiografi­e e gli studi specialist­ici, incontriam­o una ventina di civili. Arrivano anche da Tripoli, Sirte e dai villaggi nel deserto. Su cinquanta letti meno della metà sono occupati, ma la maggioranz­a dei pazienti è a casa per licenza. Due sono casi particolar­i. Il 29enne Abdul Badwa è un marinaio della guardia costiera picchiato dagli scafisti di Zawyia perché impegnato nel programma della lotta al traffico dei migranti sponsorizz­ato da Roma. Ha gamba e bacino fratturati.

L’altro è invece il 26enne Anas Abu Salim, poliziotto, aggredito a colpi di mitra e ferito alle gambe a Sirte il 19 giugno. Ma il lavoro principale per il personale medico italiano si svolge all’ospedale di Misurata, dove tengono anche una ventina di corsi di specializz­azione per i colleghi libici. I resoconti di un anno parlano chiaro: su quasi 10 mila attività mediche, circa il 55% sono avvenute nell’ospedale cittadino.

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