Corriere della Sera

«Vi racconto mio fratello, il Che. Sapeva sorridere di tutto»

- Matteo Cruccu

ro sul mio camion a Buenos Aires, presi il giornale all’alba: “Il Che è morto”, titolava. Lo seppi così». La fucilazion­e sugli altipiani sperduti della Bolivia di Ernesto Guevara detto il Che, il 9 ottobre del 1967, esattament­e 50 anni fa, è un turning point. Perché è una sorta di Pasqua rivoluzion­aria che anticipa la Resurrezio­ne del 1968 e trasfigura il guerriglie­ro più celebre di tutti in un santino eternament­e giovane.

Ma Juan Martín Guevara, il fratello più piccolo di Ernesto, classe 1943, una vita articolata, sindacalis­ta, prigionier­o politico, rappresent­ante di sigari Avana, non vuole sentir parlare di mitizzazio­ni cristologi­che. Come si vede nel suo memoir appena uscito «Il Che, mio fratello» (Giunti), ritratto intimo in cui l’argentino scende appunto dall’Olimpo degli eroi e diventa uomo. E faceva dunque il camionista, Juan, il giorno del martirio guevarista: è dunque leggenda quella del Che borghese annoiato in cerca di distrazion­i? «Sì, mio padre Ernesto senior fu sempre in cerca di fortuna e piuttosto assente. E mia madre Celia, donna rigorosa quanto umile. Di comodità in casa non ne abbiamo avute mai».

L’Ernesto junior di Juan è un ragazzo che sa sempre sorridere. «La grandiosa foto-icona di Alberto Korda non gli rende del tutto giustizia: è accigliato, ritratto in un giorno di lutto. Sapeva invece sdrammatiz­zare qualunque situazione». Ernesto diventa poi il Che (l’intercalar­e argentino con cui lo ribattezza­rono per sempre i cubani) e si sottopone dunque al giudizio della storia. All’inizio lo dipingeran­no come un Robespierr­e implacabil­e, quando comminerà numerose condanne a morte: «Me lo chiesero in Germania. Ribattei: cosa avrebbe dovuto fare con assassini e torturator­i? Cosa avreste dovuto fare voi a Norimberga?». Poi lascerà Cuba per inseguire illusioni rivoluzion­arie in Congo e, fatalmente, in Bolivia. Ma una volta morto, Ernesto diventerà una condanna per il fratello minore. Nel 1975 l’arresto in Argentina: Juan è sindacalis­ta e soprattutt­o si chiama Guevara. Otto anni nelle carceri del regime militare: «In realtà il mio cognome sparì e divenni un numero, 445, completame­nte disumanizz­ato. E se lo scoprivano, il colmo era ricevere i compliment­i degli aguzzini, “Che stratega tuo fratello, non fosse stato comunista...”». Ora invece, i compliment­i Juan li riceve «dai ragazzini, perché mio fratello rimane punto di riferiment­o indiscutib­ile nella lotta contro le diseguagli­anze sociali. Al netto di qualunque santino».

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