IL «NEW YORKER» E GLI EDIFICI MUSSOLINIANI, UNA POLEMICA INUTILE
Già autrice di un saggio intitolato La cultura fascista (il Mulino), che suscitò riserve tra gli studiosi per la sua scarsa accuratezza (si veda il severo giudizio espresso da Giovanni Belardelli sul «Corriere» del 10 giugno 2000), ora la studiosa americana Ruth Ben-Ghiat si chiede sulla rivista «The New Yorker» perché in Italia facciano ancora bella mostra di sé edifici e monumenti di epoca mussoliniana, in particolare all’Eur e al Foro Italico di Roma. La risposta è semplice: il fascismo, durato vent’anni, s’impegnò parecchio nella costruzione di opere pubbliche, alcune delle quali, anche per il loro valore artistico e architettonico, sono sopravvissute alla caduta del regime e all’avvento della Repubblica democratica e antifascista. Evidentemente la questione è stata posta dal «New Yorker» sulla scia della polemica sollevata in America circa le statue degli esponenti sudisti. Ma il caso è ben diverso, perché i monumenti ai confederati non sono residui scampati a una sconfitta e a una messa al bando: vennero elevati (alcuni anche al Nord) non prima, ma dopo la sconfitta degli Stati schiavisti nella guerra di Secessione e corrispondevano alla persistenza della segregazione razziale contro gli afroamericani nel Sud degli Usa fino a un secolo dopo la fine del conflitto. Incongruo appare anche collegare il tema, come fa Ruth Ben-Ghiat, alla presenza di esponenti provenienti dal Msi in vari governi italiani, dal 1994 in poi, perché lo «sdoganamento» della destra ha in realtà a lungo andare indebolito la presa del richiamo nostalgico e contribuito a disgregare l’area apertamente neofascista, un tempo consistente e oggi poco significativa dal punto di vista elettorale. Poi, certo, il pericolo del populismo xenofobo è forte in Italia come in tutta Europa. Ma non è dal Palazzo della Civiltà Italiana all’Eur, o dall’obelisco del Foro Italico, che trae alimento.