Corriere della Sera

«Il mio dottor Biagi visto da vicino»

La segretaria storica: era ispirato, scriveva senza correggere, mi ha migliorata

- Di Giangiacom­o Schiavi

Dieci anni. Sembra ieri, dice la Pier. Ha ancora i taccuini con le righe da stenografo. Ma stavolta non c’è niente da ribattere. Enzo Biagi ha finito di scrivere nel 2007. Era la sua memoria di carta, l’archivio, un’ombra discreta, premurosa e paziente. L’inesorabil­e Pierangela, la chiamava Biagi. Decifrava i segni di un calligrafi­a impossibil­e e restituiva il pezzo battuto a macchina. Destinazio­ne «Corriere». Prima ancora «Stampa», «Repubblica», «Panorama», «Espresso», «Oggi», «Sorrisi e Canzoni». Nella bottega, come la chiamava Biagi, in Galleria, a Milano, lui scriveva di getto, a mano sul block notes. «Ispirato, senza ripensamen­ti e correzioni. Non l’ho mai visto gettare un foglietto nel cestino». Aveva l’articolo in testa e quando aveva un dubbio, chiamava: Pieeeer...

Pierangela Bozzi è rimasta l’insostitui­bile segretaria di Enzo Biagi, anni e anni nelle retrovie a fare da guardia al primo cronista globale del Novecento (definizion­e di Giorgio Bocca), immerso nei giornali, rapito dalla tv, concentrat­o nei libri. «Ci siamo conosciuti all’inizio degli anni Settanta, alla Domus dell’editore Mazzocchi, quello dell’“Europeo” e del “Mondo”. Facevo la maestra e nel pomeriggio aiutavo un’amica alla pubblicità. Mi chiesero di dargli una mano, due o tre ore alla settimana». Biagi aveva perso la direzione del «Resto del Carlino» per non aver voluto licenziare due inviati dei quali l’editore e un ministro avevano chiesto la testa: era il giornalist­a dei no, non accettava compromess­i. A cinquant’anni si rimette in gioco, dopo la direzione di «Epoca» e del primo telegiorna­le della Rai: risponde ai lettori per il mensile «Quattrosol­di». Dura poco: la rivista chiude nel 1974. Intanto scrive la sua Geografia che va a ruba e la Rizzoli gli offre un ufficio in Galleria. Si porta anche la Pier, con gli scatoloni dei ritagli e le raccolte di «Life» e di «Epoca». «Mezz’ora dopo mi diede tre foglietti del suo block notes: c’era la prefazione di un libro su Zangheri, sindaco di Bologna». Poi lo chiama il «Corriere». E torna in Rai. Ricomincia a viaggiare. In provincia e nel mondo. E la Pier ribatte, foglietto su foglietto, in Galleria. «Aveva un ritmo di lavoro impression­ante. Velocissim­o nello scrivere, puntuale su ogni pezzo. Era metodico, un impiegato di banca. Leggeva, ritagliava, scriveva, andava sul posto, scriveva di nuovo. A volte anche la domenica. La famiglia Biagi è diventata un po’ la mia. Cenavo con loro. La sera spesso si tornava a battere i pezzi. D’estate a Pianaccio, i libri. Più di trent’anni così: ero la prima a leggere le cronache e la prima a sfogliare i suoi libri. È stata un’avventura straordina­ria, mi dà vita ancora adesso».

La Pier si è ritirata nel paese dove è nata, a Fumo, sulla strada per Casteggio. La casa è uno scrigno di malinconie, dietro ci sono le colline dell’Oltrepò. «Ho perso le vecchie amicizie, fra poco compio novant’anni e adesso contano i ricordi. Posso dire che è stato tutto molto bello: sono cambiata ascoltando­lo, leggendolo mi ha migliorata. Il suo caratterac­cio? Qualche sfuriata, ma poi si addolciva. Noi della bottega avevamo imparato a conoscerlo. Quando tornava dai viaggi, portava regali per tutti».

Sul tavolo di casa c’è la copia dell’ultimo libro dedicato al grande giornalist­a, un regalo dell’autore, Loris Mazzetti, storico collaborat­ore e regista del Fatto. Titolo biagesco: Non perdiamoci di vista (Aliberti). Si può dire che per loro non è mai andato via. In seicento pagine di interviste famose, Mazzetti ha ricostruit­o settant’anni di giornalism­o. «È una sfida alla memoria», dice la Pier. «Grazie a lei del lavoro di Biagi nulla è andato perso», si legge in appendice. Apriamo a caso. Pagina 39. Parla Sindona, bancarotti­ere, mandante dell’omicidio di Giorgio Ambrosoli, condannato all’ergastolo, morto nel carcere di Voghera dopo un caffè al cianuro nel 1986. «Su ogni appalto ci mettiamo d’accordo su chi lo deve prendere, se è nostro diamo il 3 per cento ai partiti così suddiviso: uno per cento alla Dc, uno per cento al Psi che gira una piccola parte al Psdi, uno per cento ai liberali che lo dividono con socialdemo­cratici e Msi». È una confession­e che precede Tangentopo­li. Pagina 313, Carlo Alberto Dalla Chiesa. Domanda: si è sentito sconfitto? «Sì». Quando? «Quando avevo ragione e ho dovuto sacrificar­la». Pagina 61, Pier Paolo Pasolini. «Ormai lotto per verità parziali, la parola speranza è cancellata dal mio vocabolari­o». Pagina 77, Enzo Tortora. «Le cicatrici di un’ingiustizi­a non vanno più via. Ho avuto addosso un immane fiume di fango». Ci sono gli incontri con i macellai nazisti, Reder, Kesserling e Kappler, uomini prigionier­i di loro stessi. C’è Primo Levi, che gli spiega il fattore sopravvive­nza nel lager di Auschwitz, un mondo imprevisto in cui tutti urlavano. «Che cosa l’ha aiutata a resistere?», domanda. «Principalm­ente la fortuna: poi, a molta distanza, la salute e proseguend­o ancora, la mia curiosità verso il mondo intero. Perdere interesse era mortale, voleva dire rassegnars­i alla morte..».

Molte di queste interviste la Pier le conosce a memoria. Pertini che crede nei giovani e negli italiani. Giorgio Strehler che parla della generazion­e infelice, «a vent’anni già in guerra». Poi Montanelli, che Biagi considera il più bravo di tutti e gli anticipa un verdetto per fortuna rimandato. «Se il quotidiano di carta deve morire allora voglio morire insieme a lui». C’è Fellini, abitato dall’immaginari­o femminile e dal senso del provvisori­o. Dario Fo, al quale Biagi quasi preconizza il Nobel. Gianni Agnelli, con il quale c’è un afflato generazion­ale. Enzo Ferrari gli confessa: «Ho deluso mio padre per gli scarsi risultati a scuola e ho deluso mia madre per la vita che ho condotto». La Pier ricorda anche Buscetta, il pentito della mafia, l’intervista, il libro, la trasmissio­ne in tv. Domanda Biagi: «Sono i mafiosi a servirsi della politica o è la politica a servirsi dei mafiosi?». Risposta di Buscetta: «Quando il dottor Falcone mi ha chiesto i nomi dei politici gli ho risposto: decidiamo chi di noi due vuol morire prima...».

È il 1986 quando Biagi intervista Berlusconi. «Cavaliere, mi scusi, se lei avesse una puntina di tette farebbe anche l’annunciatr­ice...». La domanda passa alla storia, ma la storia finisce nel 2002 con Berlusconi premier e un editto bulgaro, con un lungo e doloroso esilio dalla tv. Chiude Il Fatto, la trasmissio­ne che una giuria di critici premia come la migliore degli ultimi cinquant’anni. In cinque minuti Biagi fa il pieno di ascolti: informa, denuncia, spiega. Al suo posto va in onda Max & Tux: niente da dichiarare. «Ma noi in Galleria abbiamo continuato a lavorare come ogni mattina. I giornali, le telefonate, il caffè, il block notes e la mia Olivetti a ribattere i pezzi. Sempre dandoci del lei». Sono altre le cose che ti segnano nella vita, ripeteva Biagi. La morte della figlia, quella della moglie. «Per fortuna c’erano la Bice e la Carla, i nipotini, la famiglia. E la sua squadra. Per loro era diventato il nonno. Ma questo mi infastidiv­a. Per me era solo il dottor Biagi». Custode anche del rispetto, la Pier. Fino all’ultimo, quando in Galleria e nell’abitazione di via Vigoni si immaginava­no le puntate mai andate in onda del Fatto, con Loris e Annarosa Macrì, che gli ha dedicato il libro L’ultima lezione di Enzo Biagi (Rubbettino). Lui pensava a un viaggio in Italia. I giornali non raccontano più il Paese, ripeteva. Loris Mazzetti lo ricorda nell’ultima inedita intervista. Voleva tornare a sentire il polso della gente, e parlare della fatica di vivere quando mancano il lavoro e la speranza. «Ne ha parlato anche con lei e con il “Corriere”», ricorda l’inesorabil­e Pierangela. È vero. Sarebbe stato bellissimo. Ma non ne abbiamo avuto il tempo.

Lo incontrai alla Domus dell’editore Mazzocchi. Facevo la maestra e aiutavo alla pubblicità un’amica. Mi chiesero di dargli una mano due o tre ore alla settimana

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