«Mondadori torna al Salone»
Enrico Selva Coddè: avremo stand e marchi del gruppo ma per noi la fiera è Milano
«L’anno prossimo al Salone del libro di Torino ci saremo». Lo annuncia, alla vigilia della partenza per la Buchmesse di Francoforte, Enrico Selva Coddè. In una saletta riunioni nella sede di Segrate, l’amministratore delegato dell’Area Libri Trade di Mondadori spiega gli ultimi passaggi della riorganizzazione del gruppo leader in Italia, analizza lo scenario del mercato editoriale, si entusiasma parlando delle sue letture («Hermann Brock e Knut Hamsun con Il risveglio della terra, mi piacerebbe ripubblicarlo»). Ride quando si affronta l’inevitabile questione Torino-Milano ma non si sottrae alle domande.
Quest’anno i grandi gruppi milanesi, Mondadori e Gems, hanno disertato il Salone. Perché tornate?
«Perché Torino ha una grande tradizione, trent’anni di storia, e in questa edizione ci sono le condizioni per farlo. Dobbiamo vedere con che dimensioni e spazi ma ci saranno tutti i nostri marchi, il nostro stand. In futuro vedremo».
È stato un errore non andare?
«Semplicemente non c’erano i tempi, i modi per farlo. Secondo me l’errore è stato accendere la diatriba Milano-Torino quando gli intenti e le finalità erano ben diversi»
Il successo dell’ultima edizione del Salone vi ha convinto?
«A noi convincono Torino, Mantova, Pordenone e molte altre iniziative. Condividiamo questa visione partecipativa, ma una cosa è la fiera dell’Aie, altra cosa sono eventi più o meno ben riusciti, più o meno ben gestiti, più o meno cari. Ci devono essere temi, sostenibilità e visione. Avere trent’anni di storia, come il Salone, ha un suo peso, una sua importanza».
Ma, in sostanza, la fiera per voi è Tempo di Libri.
«È un’anomalia tutta italiana avere due fiere ed è un costo che grava sugli editori. Tempo di Libri è il grande progetto dell’Aie, nasce dalla legittima aspirazione di un’associazione confindustriale di avere una fiera sua, di respiro internazionale, governata in autonomia. Farla era legittimo e opportuno. È un progetto strutturato per interessare tutta la filiera del libro con importanti possibilità di sviluppo, non fosse altro per la capacità di attrazione, anche infrastrutturale, della città. Il tema della diffusione della lettura è prioritario e tanto più è importante impegnarsi in zone dove gli indici di letture sono più bassi, come al Sud. Ma non so se lo strumento fieristico sia quello più adatto. Così come trovo discutibile che la promozione della lettura debba essere soprattutto a carico degli editori».
Tempo di Libri non è andata bene. Cosa vi aspettate per la prossima edizione?
«Un po’ per i risultati dell’anno scorso e molto per i cambiamenti che hanno apportato ci aspettiamo un’edizione di gran lunga migliore anche solo perché migliori sono le date, l’anno scorso infelici. Come anche gli orari di chiusura, che erano troppo anticipati. Il cambio della sede, da Rho al Portello, e il lavoro nelle scuole saranno elementi importanti».
Si discute sulle fiere ma il problema è il mercato del libro, sempre troppo piccolo.
«Anche nel 2016 abbiamo perso percentuali di lettura: meno di 24 milioni leggono almeno un libro all’anno. Un ulteriore calo non è certo una buona notizia. Però io vedo un mercato sano, ci sono movimenti di autori, case editrici nuove. Ci sono elementi che consentono di dire che è in buona salute: le copie vendute, dopo anni di calo, tengono e aumenta il mercato a valore. C’è un dinamismo crescente di settori come fiction e ragazzi, una tendenza degli italiani all’acquisto online che ha superato il 20% a fronte di un costante calo della grande distribuzione che è un problema per certe categorie di libri ma anche per milioni di italiani che vivono in centri dove non ci sono librerie».
Crescita del mercato a valore senza crescita delle copie significa aumento dei prezzi. Questo non allontana ancora di più il lettore?
«L’Italia è uno dei Paesi in cui si comprano meno libri e sono meno cari rispetto alla maggior parte degli altri Paesi europei. Nei limiti di una corretta valorizzazione di un libro ben fatto non credo che si possano considerare troppo costosi».
Il mercato mostra un certo dinamismo anche per l’ingresso di nuovi gruppi internazionali, come HarperCollins e DeA Planeta e anche per il lavoro di case editrici che si ingrandiscono come Sellerio o La nave di Teseo.
«La competizione fa bene anche in editoria, non è una banalità dirlo. Impedisce che ci si sieda sugli allori, è uno stimolo e l’acquisizione dei titoli è una fase fondamentale. Dopo di che, però, vengono la sapienza editoriale delle case editrici, la comunità dei suoi autori e il loro bisogno di sentirsi in una casa, la riconoscibilità del marchio, la capacità di pubblicare e distribuire libri diversi in modi diversi nell’interesse dei lettori e degli autori, sia che si tratti di alta letteratura o puro intrattenimento mainstream globale e multimediale. E poi il tempo della sedimentazione del catalogo, che è il tempo della cultura. Infine la sostenibilità economica totale che, per editori piccoli o grandi, è una garanzia di autonomia e indipendenza. L’editoria è continua invenzione del nuovo, non c’è da aver paura».
Non temete nemmeno i grandi gruppi internazionali che hanno possibilità economiche e possibilità di fare Rete?
«L’editoria a questi livelli non è solo avere risorse finanziarie per acquisire i titoli. I grandi gruppi hanno importanti risorse, fare editoria è una complessità di elementi e di rapporti e le case editrici del gruppo sanno bene come fare».
La centralizzazione non rischia di essere un problema rispetto a immediatezza, velocità, sviluppo?
«L’editoria deve essere in grado di diventare veloce, non dico in termini di burocrazia interna che è un dovere cercare di ottimizzare, ma perché è il mondo esterno che cambia velocemente. Non si tratta di procedure, quanto di una capacità di anticipazione di fenomeni prima che di autori e di gusti prima che di libri. Però la dimensione di gruppo non porta in sé un necessario rallentamento. È un mestiere che si deve imparare a fare sempre meglio ma la decisione è interna alle case editrici, la velocità la determinano loro. Il coordinamento in termini operativi, commerciali, industriali è addirittura un valore aggiunto».
Adesso nasce la Business Unit ragazzi. Che cosa significa?
«Facciamo, come nel resto del mondo, un polo specializzato di case editrici e marchi che hanno missioni e linee editoriali molto diverse. Si va da un mondo prescolare a un segmento teen che si sta specializzando anche con la non fiction. In mezzo c’è moltissimo altro. Lo facciamo per articolare e completare l’offerta sui ragazzi. Questo è un mercato che per sua natura cambia continuamente ma è solido, cresce anche a livello internazionale. È un settore in cui le librerie indipendenti sono addirittura in crescita. Mondadori punta alla leadership anche qui: è strategico per noi ma anche per la diffusione della lettura, per la crescita del Paese e per l’industria culturale. Al di là di ogni facile retorica abbiamo anche una grande responsabilità. Bisogna saper raccontare storie, svelare nuovi mondi, fare libri con grande cura e riuscire a farli scoprire. La competizione che il libro deve affrontare con il nativo digitale è impervia. In questa sfida è fondamentale la scuola, ma anche la famiglia».
Nasce un polo specializzato di case editrici per i lettori più giovani