AUNG SUU KYI E I MILITARI
Aung Suu Kyi ha con il suo ultimo discorso nuovamente deluso, compromettendo ancor più l’immagine di paladina della rinascita democratica del suo Paese; nulla può spiegare al resto del mondo la mancata condanna della repressione selvaggia della minoranza Rohingya. Le cose però in Birmania sono più complicate e, se non giustificano, possono in parte spiegare.
Il problema di una minoranza musulmana in un Paese buddista non è solo religioso. Durante la seconda guerra mondiale i Rohingya si schierarono con l’amministrazione coloniale inglese e la maggioranza della popolazione prese le parti del Giappone, sperando di ottenere così l’indipendenza. A conflitto finito, i Rohingya tentarono senza successo di dare vita a uno Stato indipendente, fornendo il destro per una repressione che non è in pratica mai terminata e con i militari al potere determinati a stroncare in radice qualsiasi accenno di rivolta. Anche l’ultima campagna è nata da alcune azioni dei movimenti indipendentisti rohingya, cui l’esercito ha reagito come è suo costume: con una pulizia etnica senza pietà.
Senza il Premio Nobel ad Aung Suu Kyi, pochi avrebbero fatto molto caso a un’altra delle tante tensioni etniche che insanguinano l’Asia. E invece stavolta non è stato così, l’Onu è intervenuta e lo sdegno è stato unanime. Di tutto ciò i militari che detengono il potere si curano pochissimo e l’opinione pubblica birmana è probabilmente con loro. Aung Suu Kyi invece avrebbe dovuto preoccuparsene e, soprattutto, far sentire la sua voce.
Perché non lo ha fatto? Essa è solo agli occhi del mondo il leader di fatto del Myanmar, ma il controllo reale è sempre nelle mani dei generali, i quali si sono serviti della sua immagine per una politica di graduale apertura agli investimenti internazionali, da cui si ripromettevano grandi vantaggi (visto che è loro gran parte dell’economia del Paese). Non però a costo di una messa in discussione del loro potere; ed è qui che le aperture verso l’esterno finiscono e Aung Suu Kyi deve star bene attenta a non travalicare confini non scritti, ma rigidamente definiti.
La moral suasion che pensava – o si era illusa – di poter esercitare si è scontrata con la chiusura di un regime che non intende abdicare al suo controllo totalitario, e se questo comporta l’esecrazione del mondo, tanto peggio. Avrebbe potuto parlare e sacrificarsi. Forse non lo ha fatto perché spera ancora che qualche spiraglio si apra. O forse perché ne ha avuto abbastanza di sofferenze senza costrutto. La lezione comunque è che per il Myanmar la strada verso la comunità delle nazioni civili resta lunga.