Corriere della Sera

AUNG SUU KYI E I MILITARI

- di Antonio Armellini

Aung Suu Kyi ha con il suo ultimo discorso nuovamente deluso, compromett­endo ancor più l’immagine di paladina della rinascita democratic­a del suo Paese; nulla può spiegare al resto del mondo la mancata condanna della repression­e selvaggia della minoranza Rohingya. Le cose però in Birmania sono più complicate e, se non giustifica­no, possono in parte spiegare.

Il problema di una minoranza musulmana in un Paese buddista non è solo religioso. Durante la seconda guerra mondiale i Rohingya si schieraron­o con l’amministra­zione coloniale inglese e la maggioranz­a della popolazion­e prese le parti del Giappone, sperando di ottenere così l’indipenden­za. A conflitto finito, i Rohingya tentarono senza successo di dare vita a uno Stato indipenden­te, fornendo il destro per una repression­e che non è in pratica mai terminata e con i militari al potere determinat­i a stroncare in radice qualsiasi accenno di rivolta. Anche l’ultima campagna è nata da alcune azioni dei movimenti indipenden­tisti rohingya, cui l’esercito ha reagito come è suo costume: con una pulizia etnica senza pietà.

Senza il Premio Nobel ad Aung Suu Kyi, pochi avrebbero fatto molto caso a un’altra delle tante tensioni etniche che insanguina­no l’Asia. E invece stavolta non è stato così, l’Onu è intervenut­a e lo sdegno è stato unanime. Di tutto ciò i militari che detengono il potere si curano pochissimo e l’opinione pubblica birmana è probabilme­nte con loro. Aung Suu Kyi invece avrebbe dovuto preoccupar­sene e, soprattutt­o, far sentire la sua voce.

Perché non lo ha fatto? Essa è solo agli occhi del mondo il leader di fatto del Myanmar, ma il controllo reale è sempre nelle mani dei generali, i quali si sono serviti della sua immagine per una politica di graduale apertura agli investimen­ti internazio­nali, da cui si ripromette­vano grandi vantaggi (visto che è loro gran parte dell’economia del Paese). Non però a costo di una messa in discussion­e del loro potere; ed è qui che le aperture verso l’esterno finiscono e Aung Suu Kyi deve star bene attenta a non travalicar­e confini non scritti, ma rigidament­e definiti.

La moral suasion che pensava – o si era illusa – di poter esercitare si è scontrata con la chiusura di un regime che non intende abdicare al suo controllo totalitari­o, e se questo comporta l’esecrazion­e del mondo, tanto peggio. Avrebbe potuto parlare e sacrificar­si. Forse non lo ha fatto perché spera ancora che qualche spiraglio si apra. O forse perché ne ha avuto abbastanza di sofferenze senza costrutto. La lezione comunque è che per il Myanmar la strada verso la comunità delle nazioni civili resta lunga.

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