Corriere della Sera

SULL’UNESCO TROPPE DISTRAZION­I

Dopo la decisione americana di rompere con l’agenzia per la cultura delle Nazioni Unite a causa della manifesta ostilità nei confronti di Israele

- Di Paolo Mieli

La decisione statuniten­se di lasciare, entro la fine del 2018, l’Unesco (che non finanziava­no più già dal 2011), a causa della sua comprovata ostilità allo Stato di Israele, non è manifestam­ente impropria e sarà utile, si spera, a puntare un riflettore sull’inesorabil­e deriva presa negli ultimi decenni dall’agenzia culturale delle Nazioni Unite. A partire dal 2019 gli Stati Uniti resteranno a Parigi dove ha sede l’Unesco come «osservator­i», sia pure da «non membri». È una decisione presa in extremis, appena un attimo prima che sia nominato il nuovo direttore generale dell’Unesco stessa. Un esponente politico del Qatar, Hamad bin Abdulaziz Kawari, al primo provvisori­o voto per l’importante incarico, ha ottenuto il maggior numero di suffragi. E il Qatar — ricordiamo­lo — è da tempo identifica­to come uno dei quattro o cinque Paesi al mondo più inclini ad alimentare il fondamenta­lismo islamico. In Italia questo problema è poco avvertito ed è ipotizzabi­le che all’origine della nostra distrazion­e sia la generosità con la quale l’emiro Tamim bin Hamad Al Thani si è sempre mostrato disponibil­e a investire nel nostro Paese. L’indulgenza italiana nei confronti del Qatar è iniziata ai tempi del governo presieduto da Mario Monti: l’economia — per usare un eufemismo — andava male e i soldi dell’emirato, in quell’emergenza, furono considerat­i benvenuti. Vanno inserite in questo quadro una serie di operazioni immobiliar­i e finanziari­e in Italia.

Il Qatar ha acquistato grattaciel­i a Milano, un bel pezzo di Costa Smeralda, il gruppo Valentino, una parte del gruppo Cremonini, numerosi hotel di lusso. Oltre allo stanziamen­to di venticinqu­e milioni di euro per la costruzion­e di oltre trenta moschee e centri islamici nel nostro Paese. Ai tempi in cui presidente del Consiglio era Matteo Renzi, l’ex ministro della Cultura del Qatar, il succitato al Kawari, fu ricevuto dal ministro dell’Istruzione Stefania Giannini per un accordo con l’università romana di Tor Vergata che gli conferì una laurea «honoris causa» (concessa in maniera assai affrettata, tra i mugugni degli accademici più sensibili al decoro del loro ateneo). Un anno fa Kawari incontrò di nuovo Stefania Giannini e stavolta anche il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan assieme a quello della Cultura Dario Franceschi­ni. Quest’«operazione simpatia» (accompagna­ta dalla promessa di nuove generose elargizion­i) ha fatto sì che l’Italia lo abbia sempre appoggiato per l’elezione a Direttore generale dell’Unesco come successore dell’attuale direttrice, la bulgara Irina Bokova. Shimon Samuels, direttore del Centro Wiesenthal, a questo punto ha ricordato alla distratta Italia e agli altri sponsor del discusso uomo politico che fu proprio Kawari a far designare nel 2010 — sempre dall’Unesco — Doha «capitale della cultura araba»: dopodiché nella fiera internazio­nale del libro della principale città del Qatar furono esposti ben trentacinq­ue titoli antisemiti tra cui nove edizioni dei Protocolli dei Savi di Sion e quattro del Mein Kampf. Kawari — come proprio ieri ha ricordato sul Foglio Giulio Meotti — ha per di più curato (firmandone la prefazione) Jerusalem in the Eyes of the Poets. Un libro che — avvalendos­i di una testimonia­nza di Roger Garaudy, l’ex comunista francese convertito all’islamismo più radicale — denuncia il «controllo degli ebrei» (sottolinei­amo: qui si parla di ebrei, non di israeliani) su media e case editrici degli Stati Uniti. Quanto a Israele, il volume prefato da Kawari stabilisce che lo Stato ebraico «è responsabi­le per la guerra civile in Libano, per la prima e la seconda Guerra del golfo, per l’invasione dell’Iraq e dell’Afghanista­n, per il caos in Sudan e in Egitto».

Ma come è possibile che personaggi del genere siano anche solo presi in consideraz­ione per guidare l’Unesco? La risposta è sempre la stessa. Il Qatar ha «donato» all’Unesco dieci milioni di dollari (non è il solo: l’Arabia Saudita ne regalò venti e il re Abdullah fu immediatam­ente insignito della medaglia per «la cultura del dialogo e della pace»). Per quel che riguarda l’Italia, poi, dobbiamo considerar­ci recidivi in questo genere di impresa: in passato sostenemmo la nomina a quello stesso incarico dell’esponente egiziano Farouk Hosni. Hosni poi saltò allorché vennero rese note alcune sue prese di posizione inequivoca­bilmente antiebraic­he (tra l’altro come ministro della Cultura si era detto disponibil­e a bruciare «di persona» libri israeliani nel caso qualcuno avesse pensato di introdurli nella biblioteca di Alessandri­a e aveva fatto bandire dalle sale cinematogr­afiche il film «Schindler’s List»).

Può bastare? No. C’è un problema specifico tra Unesco e a cura di Carlo Baroni Israele. Esattament­e un anno fa l’Unesco ha approvato una mozione in cui il Muro del Pianto non veniva più identifica­ta con il nome ebraico «Kotel» ma con quello arabo «al Burak». A un tempo la Spianata delle moschee di Gerusalemm­e considerat­a sacra sia dai musulmani che dagli ebrei veniva chiamata solo con il nome islamico Al Haram Al Sharif. Ne è venuta fuori una tempesta interconti­nentale. Persino la Bokova, protestò: «L’eredità di Gerusalemm­e è indivisibi­le, e ciascuna delle sue comunità ha diritto al riconoscim­ento esplicito della sua storia e del rapporto con la città», disse. Anche l’Italia, che al momento del voto su questa imbarazzan­te risoluzion­e si era astenuta, fu costretta a rivedere le proprie posizioni. Si dirà: sono controvers­ie che hanno origini recenti e hanno colto i nostri governi impreparat­i. Non è così. La guerra dell’Unesco contro Israele iniziò nel 1974 quando lo Stato ebraico fu cacciato (per poi essere riammesso due anni dopo) dall’agenzia, all’epoca guidata dal senegalese Amadhou Mahtar M’Bow. E raggiunse l’apice l’anno passato quando, assieme alla non riconducib­ilità a Israele del Muro del Pianto, in una riunione a Cracovia, l’Unesco definì Israele «potenza occupante» e la Tomba dei Patriarchi di Hebron un sito «palestines­e». Qualcuno sosterrà adesso che la decisione americana di rompere con l’agenzia per la cultura delle Nazioni Unite è stata precipitos­a. Non è così. Forse servirà, anzi, a impedire all’ultimo minuto utile che l’uomo politico qatariota sia chiamato a guidare l’organizzaz­ione che per conto delle Nazioni Unite dovrà valutare i danni arrecati da Daesh a Palmira senza ricondurne, per qualche via tortuosa, la responsabi­lità allo Stato ebraico.

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