Un traguardo e alcune riserve
Un ramo del Parlamento ha approvato la nuova legge elettorale, e questo va considerato un traguardo importante: tanto più che il risultato è stato raggiunto con l’accordo non solo tra Pd e Ap, partiti di governo, ma con l’apporto di Forza Italia e Lega Nord che sono all’opposizione.
Il Quirinale chiedeva una riforma in grado di rendere omogenei i sistemi di Senato e Camera, e questo c’è. Invocava una riforma il più possibile condivisa, e anche la seconda condizione è in parte rispettata. Andare troppo oltre nella sottolineatura degli aspetti positivi, però, diventa difficile. E non tanto per le ombre di incostituzionalità evocate dagli avversari più tetragoni.
Le riserve e i dubbi riguardano la capacità del cosiddetto «Rosatellum», nomignolo mutuato dal cognome del proponente, il capogruppo del Pd alla Camera, Ettore Rosato, di guarire l’Italia dall’ingovernabilità. Purtroppo, molte proiezioni sulla composizione del Parlamento dopo le Politiche dicono che sarà un miracolo formare un governo stabile. Per il modo in cui è congegnata la distribuzione dei seggi, i partiti maggiori che riescono a stringere alleanze sarebbero favoriti. Anche se il Movimento 5 Stelle, grande escluso dall’accordo insieme a Mdp e a Fratelli d’Italia, per paradosso potrebbe trarne a sua volta un vantaggio. Dunque, la riforma non cancellerà la divisione in tre tronconi del Parlamento.
Il M5S appare una presenza strutturale del sistema politico, come avviene per altre forze etichettate come populiste in Europa; e da noi con consensi più marcati che altrove. Alla fine il problema di creare una maggioranza in grado di governare ritornerà nelle mani del capo dello Stato, pressoché intatto. Di più: si riproporrà con un sovraccarico di veleni dovuto al modo in cui si è arrivati all’approvazione del sistema elettorale. Non si può negare che la legge sia il male minore rispetto al nulla legislativo; e che i voti segreti su decine di emendamenti forse avrebbero portato all’affossamento del testo concordato.
Tuttavia, le ragioni usate per concludere che la fiducia era una forzatura inevitabile, non bastano. Rimane il tema di una sinistra che dopo essersi scissa, continua a non trovare pace, a livello nazionale e locale: al punto da doversi blindare non perché le opposizioni siano forti, ma perché non si fida dei propri eletti nonostante i numeri di cui gode alla Camera. E lo fa in fretta per evitare che un’eventuale a sconfitta alle regionali siciliane, il 5 novembre, destabilizzi il vertice dem.
Ma si tratta di scelte che scaricano sul Paese i problemi di partiti in bilico. Di blindatura in blindatura, l’opinione pubblica comincerà a pensare che si cerchi non tanto la stabilità dell’Italia ma delle nomenklature. Il fatto che, per come è configurata, la legge spedirà in Parlamento per lo più persone «nominate» dai leader, e non scelte dall’elettorato, non aiuterà a rilegittimare la politica. Anzi, rischia di dare fiato alle forze più radicali che candideranno i fedelissimi del capo, ma incolpando il «sistema» del quale si diranno vittime per coprire i propri errori: come si vede nelle piazze del M5S.
Forse davvero non si poteva fare altrimenti. E dunque è giusto incassare il risultato; ma senza esagerare. Si sta delineando una riforma elettorale, e questo è il principale e forse l’unico dato positivo. Sul suo contenuto e sul metodo usato per arrivarci, però, sarà bene riflettere, più che esultare.