Il coraggio di Asia che si guarda nello specchio horror Le nostre figlie imparino da lei
Quante madri italiane negli anni Novanta hanno chiamato le figlie Asia come una benedizione: che tu possa essere bella, ribelle, privilegiata come lei, Asia Argento. Asia che si distingue dalle altre attrici perché ha qualcosa di sfuggente che la rende unica, refrattaria alle definizioni: fastidiosa o gentile? Buona o cattiva? Inquieta, tenerissima, pazza, è pazza? E mentre il mondo tenta di definirla, lei diventa madre, non mostra mai i figli, rimane legatissima
alla famiglia. Lei che quando si cimenta come regista dimostra di avere un immaginario potentissimo. Impossibile non ragionare sul legame di questo immaginario con quello paterno, del resto è proprio il padre a mettere la figlia fin da bambina al centro dei suoi incubi, quasi ad accompagnarla simbolicamente nella crescita attraverso un mondo popolato di mostri: non avere paura, sembra dirle.
Ma torniamo agli anni Novanta, torniamo a quando in Italia le neo mamme chiamavano le figlie Asia: che tu possa essere famosa, amata, e libera come lei. In quegli anni Asia va in America a girare B. Monkey di Michael Radford, 1997: la immaginiamo ventenne a Hollywood, immaginiamo vestiti, gioielli, feste. Eccola a una di queste feste portata da un produttore italiano (poco conta il nome). Peccato che non ci sia nessuna festa, peccato che il produttore italiano sparisca lasciando Asia sola col potentissimo produttore americano (anche qui poco importa il nome). Fine. Che tutte le nostre piccole Asie possano un giorno incontrare potenti produttori americani, sogniamo dall’Italia.
Se non fosse che in Scarlet Diva, primo film da regista di Asia Argento, un produttore americano chiede alla protagonista di fargli «un piccolo massaggio». Lei, smalto scuro e pelliccetta di finto leopardo, si avvicina e gli massaggia una spalla, poi tutto precipita: lui la violenta. In questa scena del 1999 c’è la denuncia di Asia Argento, ma soprattutto c’è la rappresentazione di sé: Asia si mette in quella stanza, decide di sistemarsi su quel letto dove, seppur impacciata, massaggia la spalla del produttore. Asia Argento non mette in scena nessuna creatura innocente che fugge in lacrime. Nell’intero film del resto, e in quelli successivi (Ingannevole il cuore più di ogni cosa, 2004; Incompresa, 2014), l’innocenza è qualcosa di ben più complesso.
A volare sulla strada trascinato dal vento non è una carta bianca che sembra un fiore, ma un ombrello nero. A guardarsi nello specchio non è una ragazzina che si scopre donna, o viceversa; lo specchio horror (forse specchio paterno, chissà) rimanda una creatura mutevole, il trucco appena messo si trasforma, lacrime nere, sangue. Asia stessa riflessa non è due persone, come da cliché, ma innumerevoli, facendo così valere tutti gli aggettivi con cui il mondo fin qui ha tentato di definirla: irriverente, cattiva, buona, perduta, tenerissima, pazza, è pazza?
Tra sesso e innocenza, spudoratezza e paura, Asia Argento regista colloca se stessa sul confine. Esplora lo spazio esiguo tra vittima e carnefice, quella contiguità feroce, quel lasso di tempo che può trasformarti in complice: quand’è il momento esatto in cui la vittima diventa complice? Quando scatta la lancetta dei minuti? Perché è una questione di minuti, pare. Persino di apparenze: se esistono foto che ti ritraggono sorridente a fianco del produttore americano, puoi dirti davvero vittima? Saresti dovuta fuggire, istruisce la gente, dovevi denunciare, rifiutare i regali, moralizzano molte donne, tra cui magari qualche Asia ormai adulta. Centinaia di Asie che hanno il bisogno di collocarsi al di qua o al di là, migliaia di Asie che mai riusciranno ad accettarsi sul limitare di un’ombra che le spaventa troppo (dovremmo essere noi madri ad avvertirle che quell’ombra viene da loro). Le piccole Asie nello specchio horror non si guardano, a differenza della vera Asia: «Il fatto di non averlo respinto fisicamente mi ha fatto sentire responsabile. Se fossi stata una donna forte mi sarei ribellata, gli avrei tirato un calcio e sarei scappata via. Ma non l’ho fatto. Per questo mi sento colpevole». Allora di nuovo: chi è Asia? Decisa, confusa, perduta, forte, fortissima, debole. Si chiedono tutti quelli che hanno paura di camminare sul confine, il confine dove saltella la bambina di Incompresa, quella bambina in fuga che si addormenta abbracciata al suo gatto.
Non basta chiamarsi Asia per essere Asia, bisogna saper riconoscere il confine, e accettare le volte che per paura siamo rimaste ferme lì: che tu sia forte, fragile, e coraggiosa come lei, possiamo augurare alle nostre figlie. Sperando che riescano a mettersi di fronte allo specchio e definirsi da sole. Cattive, buone, perdute, tenerissime, pazze, adulte, piccolissime, «quando ero davanti a lui mi sentivo piccola, stupida e debole».
Vittima e complice Tra spudoratezza e paura, Argento esplora lo spazio esiguo tra vittima e carnefice, quella contiguità feroce che può trasformarti in complice