Spataro, lettera d’addio per il figlio «Fiero di come facevi l’avvocato»
Il Procuratore di Torino e la scomparsa di Andrea: eroe chi combatte e perde
avvocato penalista. Il figlio, invece, ha deciso subito di dedicarsi alla difesa.
Forse anche per questo, Armando Spataro ha criticato i colleghi che non gli sembravano abbastanza rispettosi verso gli avvocati. Quando si insediò alla guida della Procura di Torino, disse che un «cruccio» che si portava da Milano era di non essere stato in grado di convincere alcuni pm, spesso tra i più giovani, a non affiggere, come mai avevano fatto gli anziani, sulla porta dell’ufficio gli orari di ricevimento riservati agli avvocati, come se fossero normali utenti della giustizia: «L’avvocato è coprotagonista della giustizia e, di fronte al giudice, è collocato sullo stesso piano del pubblico ministero».
«Spero ora di non apparire inopportuno nel tentativo di “far parlare Andrea”: tanti sono i genitori che soffrono per simili tragedie e non tutti hanno questa possibilità… e forse lo stesso mio figlio, dotato di una grande sobrietà, potrebbe non essere d’accordo», premette Spataro nella lettera prima di andare al nocciolo: oltre al ricordo di un figlio, vuole affidare «quello di un figlio-avvocato» che si allenava alla battaglia, e non solo contro il tumore. «Andrea amava lottare con libertà di pensiero, dignità e coerenza»; la lotta, scrive il padre, «come regola di vita, non in senso retorico, ma quella quotidiana e silente per i principi in cui si crede, per il bene, per la solidarietà, per la vita… Ed eroe non è sempre e solo chi per tutto questo combatte e vince, ma anche chi combatte e perde».
Il suo unico figlio, assicura, non era un Don Chisciotte fuori dalla realtà. Lo hanno spiegato bene gli amici l’11 settembre scorso quando, in un brano letto nella messa funebre, hanno ricordato che per lui «il Tribunale va vissuto, e la giustizia non è l’avventura di un giorno». Ed è forse anche per questo, come ha raccontato al padre un collega di lavoro, l’avvocato Salvatore Scuto, che «a volte rientrava da un’udienza o da un colloquio con un pubblico ministero infastidito, se non arrabbiato (in questo, e per fortuna, non era ancora un “disilluso” ed io credo che non lo sarebbe diventato mai), per aver visto svolgere il ruolo della controparte in un modo non coerente con la sua idea del processo e della tutela dei diritti».
La sua «visione della giustizia e la dignità con cui viveva la professione», conclude il magistrato, «mi rendevano e mi rendono orgoglioso di avere avuto un “figlio-avvocato”».
La sua visione della giustizia e la dignità con cui viveva la professione mi rendevano e mi rendono orgoglioso Amava lottare con libertà di pensiero e coerenza; la lotta come regola di vita, quella quotidiana per i principi in cui si crede