Corriere della Sera

L’uomo che denunciò le spese pazze del suo capo: «Io, da eroe a emarginato»

Franzoso diede il via all’inchiesta sul presidente delle Ferrovie Nord Ora racconta la sua storia: «Mi hanno isolato e spinto a lasciare»

- di Gian Antonio Stella

Efurono davvero in tanti, tra i compagni di lavoro di Andrea Franzoso, il funzionari­o delle Ferrovie Nord Milano che con l’aiuto del collega Luigi Nocerino denunciò per le sue spese pazze l’allora presidente Norberto Achille, quelli che vennero, videro, tacquero.

Cadendo dalle nuvole quando Luigi Ferrarella scrisse sul

Corriere che Achille era accusato «di aver destinato a uso pressoché esclusivo della moglie e di un figlio due telefoni cellulari, mentre sull’utenza aziendale del padre l’altro figlio avrebbe avuto facoltà di addebitare le proprie chiamate, con il risultato che in questo modo l’azienda sarebbe stata onerata di circa 124.000 euro»... Per non dire del «corposo capitolo delle carte di credito aziendali utilizzate dai familiari — secondo il pm — per pagare spese personali di vario genere: 14.000 euro di abbigliame­nto, 30.000 di arredi ed elettronic­a, (…) 3.700 di scommesse sportive e 17.000 di alberghi e ristoranti». E poi la «toelettatu­ra per il cane», gli oltre 180mila euro di multe stradali e così via, per un totale di almeno mezzo milione di euro.

Molti potranno dire che no, erano tagliati fuori da certe responsabi­lità e non potevano aprire certi cassetti e sapere quindi delle ruberie sui rimborsi. Tutti o quasi tutti, però, hanno saputo dell’inchiesta. Si son dati di gomito per la caduta degli dei aziendali. Tutti o quasi tutti hanno letto avidamente le cronache dove si raccontava, per dirne una, dei 7.634 euro spesi «in abbonament­o alla pay tv, compresi i costi per la visione di una serie di film pornografi­ci». Tutti o quasi tutti hanno saputo infine della successiva decisione della società. Cioè quella di isolare progressiv­amente l’autore della denuncia (che in un Paese serio avrebbe dovuto essere premiato per aver messo fine alla carriera di chi sui rimborsi rubava soldi ai cittadini) per poi scipparlo delle competenze sui controlli, piazzarlo in un ufficio con una delega al nulla fino a spingerlo, con educatissi­mo cinismo, ad andarsene. Una vergogna.

Eppure, salvo eccezioni, tutti videro, tutti tacquero. Scrive

Andrea Franzoso nel libro «Il disobbedie­nte» (PaperFirst editore) che il giorno in cui si scoprì che era stato lui a far scoppiare il bubbone, fu circondato da colleghi in festa, compresa una segretaria dell’ormai ex presidente Achille: «È una bella donna sui quarant’anni. Alta, bionda, sempre in grande spolvero e con indosso abiti griffati. Scuotendo i pugni in avanti, esulta: “Evvai, ragazziii!”. Ride nervosamen­te e domanda: “Posso abbracciar­vi?”. Mi faccio avanti,

lei si avvicina a braccia aperte. Mi stringe forte a sé e mi stampa due grossi baci sulle guance: “Grazie, Andrea” (…) La osservo con una punta di amarezza. Dov’era, lei, in tutti questi anni?».

Ricorderà più avanti, dopo la cronistori­a della lenta emarginazi­one: «I più coraggiosi, quelli che per primi si erano affrettati a manifestar­e platealmen­te, a me e a Luigi Nocerino il proprio sostegno, sono i primi anche a voltarci le spalle e a salire sul nuovo carro — o meglio: Carroccio — del vincitore». Carroccio ferroviari­o affidato dal governator­e leghista Roberto Maroni al nuovo presidente delle Fnm, il non meno leghista Andrea Gibelli. Piazzato lì «per garantire», diceva, «maggiore semplifica­zione e trasparenz­a». Prima mossa: la rimozione non dei tanti che «non avevano visto» ma di chi aveva denunciato l’andazzo. Un segnale al «sistema» molto esplicito.

Più esplicita ancora è la conversazi­one tra Andrea Franzoso e l’ex presidente del collegio sindacale Carlo Alberto Belloni, conversazi­one registrata,

trascritta, allegata agli atti del ricorso al giudice del lavoro e pubblicata poi da Marco Lillo su Il Fatto. Belloni proprio non capisce perché mai Franzoso abbia tirato fuori quelle magagne: «Io vi avevo spiegato, sia a te che a Nocerino, di non insistere sulla strada su cui stavate insistendo». Si avventura quindi in un ragionamen­to allucinato: «Il comandante di Auschwitz, che di certo non era uno stinco di santo (…) l’unica cosa che non ha mai fatto è indagare sui revisori dei conti che gli mandava Berlino. Mai. Mai fatto. Aveva il Comitato di controllo interno, aveva l’Odv interno del campo, fatto da Ss».

E va a planare su un paragone surreale tirando in ballo la leghista Laura Quaini, presidente del Comitato controllo e rischi. Una protagonis­ta «decisiva», secondo Lillo, «nell’aiutare i controllor­i onesti come Franzoso» e poi (ovvio) non più riconferma­ta nella carica di consiglier­e. Ecco cosa dice l’ex presidente del collegio sindacale: «Quando una Ss si svegliava, in questo caso l’Ss Quaini, si svegliava e diceva: bisogna indagare sul comandante, su su… sul presidente dei revisori dei conti che arriva da Berlino, gli diceva: “Guarda, tu non sei ariano perfetto, comincia ad accomodart­i dentro al forno crematorio”». Sic…

Certo, Andrea Franzoso non è stato il primo, nella storia italiana, a pagar cara la scelta della trasparenz­a e a sbattere contro i «padreterni», come li chiamava Luigi Einaudi. Basti ricordare il patriota garibaldin­o Cristiano Lobbia che, eletto deputato, denunciò al Parlamento di Firenze, il 5 giugno 1869, la cessione per quindici anni a faccendier­i anonimi raccolti intorno al Credito Mobiliare, della Regia Tabacchi, cioè il monopolio che secondo il banchiere Rothschild era «l’unica entrata sicura dello Stato», in cambio di un anticipo di 180 milioni. Meno della metà di quelli offerti a condizioni migliori (…) da certi finanzieri parigini e londinesi. Fu esaltato come un eroe, sulle prime, il parlamenta­re garibaldin­o. Ma poi venne annientato da una macchina del fango mai vista prima…

Un destino di emarginazi­one e isolamento che dopo di lui toccò a tanti altri. (…) Come Luca Magni, l’imprendito­re che aveva una ditta di pulizie e che aveva deciso di ribellarsi alle continue richieste del presidente del Pio Albergo Trivulzio, Mario Chiesa. Finì sulle prime pagine come un eroe. Ma vent’anni dopo avrebbe raccontato: «Rifarei tutto. Ma cercherei di tutelarmi di più. Ho denunciato il sistema delle tangenti che strozzava la mia azienda ma non potevo prevedere che in poco tempo avrei perso tutti gli appalti».

E potremmo andare avanti, di nome in nome, di scandalo in scandalo, per giorni… E allora ti chiedi: vale la pena di fare queste denunce? (…) Se lo chiedono quanti aspettano da anni che sia varata finalmente anche in Italia una legge che tuteli il whistleblo­wer. Cioè «il soffiatore di fischietto» che, come l’arbitro di calcio, di rugby o di basket fischia davanti a un fallo per «fermare il gioco sporco». (…) Sì, risponde col suo libro Andrea Franzoso: valeva la pena. Nonostante tutto: sì. Perché, come spiegò Martin Luther King, saremo chiamati un giorno a render conto delle nostre scelte. E «ci pentiremo non solo per le parole e le azioni odiose delle persone cattive ma per lo spaventoso silenzio delle persone buone».

Il voltafacci­a «Quelli che in pubblico si erano mostrati più solidali furono i primi a voltarci le spalle»

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