Corriere della Sera

Al bando dalla collezione primavera-estate 2018 «Superate, si può essere creativi anche senza»

- Di Matteo Persivale

La decisione annunciata ieri da Gucci — la casa fiorentina di proprietà del gruppo francese Kering interrompe­rà l’utilizzo di pellicce nelle proprie collezioni a partire dalla primavera/ estate 2018 — è importante per gli animali, per chi si preoccupa del loro benessere, ma anche per chi — dentro e fuori la moda — non ha particolar­mente a cuore questi temi. Perché è l’ultimo segnale in ordine di tempo (Giorgio Armani ha da poco fatto la stessa scelta, idem Calvin Klein e Ralph Lauren) di un fenomeno che caratteriz­za sempre più molte grandi aziende non solo nel sistema della moda: il senso di responsabi­lità sociale.

Le ragioni sono due, come ha spiegato l’ad di Gucci, Marco Bizzarri, al College of Fashion di Londra: «Non penso che la pelliccia sia ancora moderna, mi sembra un po’ superata. La creatività può andare in tante direzioni senza usare pellicce, il direttore creativo Alessandro Michele e io ne siamo convinti. La tecnologia ci permette di trovare alternativ­e altrettant­o lussuose e belle». Il secondo motivo? «La responsabi­lità sociale è uno dei nostri valori fondanti».

Bizzarri senza le pellicce ha già stravinto molti anni fa, quand’era alla guida di Stella McCartney: arrivò nel 2005 quando il marchio non era il gioiellino di oggi ma una startup a forte rischio chiusura, e tramite la collaboraz­ione con H&M — molto invisa alla stilista — l’ha trasformat­a in un successo, tuttora di riferiment­o per la scelta al 100% ecologica (McCartney, vegana, non utilizza nessun prodotto di derivazion­e animale nelle sue collezioni).

Gucci senza almeno la normale pelle non si può fare — è un marchio sì di enorme influenza sul prêt-à-porter però vive di accessori — ma Bizzarri e Michele hanno eliminato tutte le pellicce: visone, coyote, volpe, coniglio, astrakhan, cane-procione e tutto il resto. Quelle che ci sono attualment­e nei negozi? Finiranno all’asta, ricavato interament­e devoluto alle associazio­ni Lav e Humane Society (Gucci entra per la prima volta nella «Fur Free Alliance» — da utilizzato­ri di pellicce a attivisti).

La domanda ovvia che circolava ieri nel mondo della moda era: cosa succede adesso alle pantofole Princetown con il pelo, accessorio creato da Michele e diventato rapidament­e uno dei simboli del suo nuovo corso (per come sta andando il 2017 la sensazione è quella che chiuderà con il fatturato record di 96 anni di storia della maison, sfiorando i sei miliardi di euro)? Semplice: le Princetown che erano di canguro nel 2015, quando arrivarono nei negozi (subito esaurite: da tempo a Firenze c’è un’intera linea in stabilimen­to dedicata soltanto a loro, una delle più efficienti macchine da soldi inventate da Michele) sono da un po’ di tempo decorate con l’agnello (nessun segreto, basta guardare il sito del e-commerce Gucci) e sono altrettant­o belle.

Bizzarri la chiama «cultura dello scopo» perché sa che se un’azienda non fa altro che produrre un bel prodotto la moda diventa solo una questione di vestiti o di borse, e di vestiti e di borse ce n’è a montagne in un mercato — e in un sistema mediatico — ormai saturo.

Ma un’azienda globale delle dimensioni di Gucci deve fare un passo in più: non pensare soltanto all’ovvio, a quello che si produce, ma anche e soprattutt­o alle persone per le quali si produce. E all’ambiente. Una forma di empatia o, come dice Bizzarri, «di educazione». Anche per questo, rivoluzion­e delle pellicce a parte, Gucci ha donato un milione di euro all’Unicef per aiutare le bambine e le ragazze dei Paesi in via di sviluppo.

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