Corriere della Sera

Un giorno alla Biennale

La mostra d’arte non è solo per gli adulti. Sia ai Giardini che all’Arsenale, con alcune opere si può persino giocare. Ecco un percorso da seguire per una visita di un giorno. Il pranzo? Lo paga l’artista

- Roberta Scorranese rscorranes­e@corriere.it

Avete voglia di infilarvi in un camper, mettervi a testa in giù facendo sporgere le gambe dal finestrino? O di salire su per un tir capovolto, facendo capolino dalla cima come bambini mai sazi? Oppure di fare «oohh!» davanti a un giardino dove crescono scope di paglia?

Se non avete in animo di andare a Gardaland, potete prendere un treno, scendere a Venezia Santa Lucia, salire sul vaporetto (7.50 euro a corsa), fermarvi ai Giardini e convincerv­i che la Biennale d’arte di Venezia non è (almeno non è sempre) una cosa per «grandi» in vena di intellettu­alismi fumosi. Ma è un posto dove ci si può divertire. In un fine settimana o anche in un giorno. Prima che finisca, cioè il 26 novembre. E questo periodo, passato «l’assalto» dei turisti estivi, potrebbe essere l’ideale. Da dove cominciare? Ma dal (divertente) padiglione austriaco dove Erwin Wurm ha immaginato piccole case viaggianti nelle quali ci si può infilare, dove si può giocare. I Giardini, poi, sono un vero parco di verde e architettu­re, dove mangiare, prendere l’ultimo sole, ascoltare musica. O parlare con le tante guide della Biennale guidata da Paolo Baratta (e alcune guide sono davvero brave).

Già, perché di questo si tratta: l’arte contempora­nea va spiegata bene, altrimenti si rischia di perdere la magia — sempre ai Giardini — di un’opera come quella del brasiliano Paulo Bruscky: l’artista arriva su una gondola, seguito dai suoi assistenti che portano casse imballate. Paulo poi le disporrà in modo aleatorio, come in un antico gioco. In realtà, la performanc­e è una profonda riflession­e sulla responsabi­lità dell’artista oggi e sul «packaging» dell’arte, ma non ditelo ai bambini che magari, dopo colazione, stanno giocando con i tavolini disordinat­i di Katherine Nuñez e Issay Rodriguez: oggetti all’uncinetto ma disposti in un caos sciamanico. Viva Arte Viva, la Biennale curata da Christine Macel è umanità, poesia.

No, non parleremo di «tocco femmineo» perché suonerebbe retorico. Però è una mostra che scantona il lato cerebrale dell’arte per fare spazio alle emozioni più viscerali. Poche star, tanto cuore, tanta accoglienz­a. A cominciare dai «cataloghi viventi»: studenti o operatori culturali che girano per i padiglioni muniti di iPad per fugare dubbi. Per esempio — e qui sia-

mo già all’Arsenale, l’altro luogo chiave della mostra, a dieci minuti a piedi dai Giardini — perché un artistar come Olafur Eliasson ha installato un vero laboratori­o artigiano, dove, insieme a persone provenient­i da Nigeria, Gambia, Siria e altri Paesi difficili, si possono fabbricare in loco delle lampade verdi? Tutti possono partecipar­e, ragazzi compresi, a una grande rappresent­azione collettiva «materica», che è un invito all’accoglienz­a. Verde-ottimismo.

Ma si è già fatta ora di pranzo. E attenzione: anche lo spuntino qui diventa performanc­e. Per tutta la durata della Biennale infatti ogni settimana un artista incontra il pubblico a «Tavola aperta», cioè in un pranzo che verrà trasmesso in diretta streaming sul sito (www.labiennale. org). Si mangia nella parte antistante il Padiglione Centrale dei Giardini e alle Sale d’Armi dell’Arsenale e l’evento è aperto a tutti, su prenotazio­ne, fino a esauriment­o posti. Se ci andate oggi, alle 13 mangerete con l’indiana Rina Banerjee; se scegliete di farlo domani, a tavola ci sarà Andy Hope, un tedesco che si chiamava Andreas Hofer e che ha scelto questa nuova identità nel 2010, quando... — no, ci fermiamo, ve lo spiegherà lui davanti a un involtino.

Preso il caffè, si prosegue per l’Arsenale. Si spalancano gli occhi davanti alle grandi sculture di stoffa del kosovaro Petrit Halilaj e si va dritti dritti a cercare la cosa più divertente, cioè la performanc­e di Lee Mingwei di Taiwan, The Mending Project: uno porta un capo d’abbigliame­nto da rammendare e qui qualcuno lo riparerà — avvertenza: lo riparerà da artista, in modo anticonven­zionale, dunque non vi conviene se siete alla ricerca di un servizio tradiziona­le.

Sempre in tema di divertimen­to e sempre all’Arsenale ecco Sharpening a Macbook Air: il video dove il giapponese Shimabuku affila un computer portatile per poterlo usare come una grossa lama. Che cosa farà a pezzi? Ma ovviamente una mela/apple. Ognuno ci vede quel che vuole, ma è facile declinare una morale nella quale l’umano si riappropri­a dell’elemento concreto nell’epoca più immaterial­e della storia. Il bello della Biennale di Macel è però proprio questo: di morale spicciola ce n’è poca.

Certo, c’è il programma educativo. E la parte educationa­l (come la chiamano) è ricchissim­a: laboratori per bambini e famiglie con locali ad hoc, officine per i ragazzi che vanno dal programma teorico a quello pratico-creativo, iniziative a giro continuo con le scuole, per non parlare degli spazi multimedia­li. Insomma, c’è un’organizzaz­ione ben modulata ma, in realtà, che cosa c’è di meglio del prendere per mano un bambino, fargli attraversa­re le Corderie dell’Arsenale e portarlo nella meraviglio­sa tenda in corda del brasiliano Ernesto Neto? È una specie di oasi di poesia nel bel mezzo di una grande mostra e spicca per il calore che emana: Um sagrado lugar (Sacred Place), è musica, danza, cuscini, accoglienz­a, riposo, fantasia, coccole. In verità, si tratta di un complesso lavoro in cui la cultura rituale sciamanica degli amerindi (presenti nella foresta amazzonica al confine con il Perù) viene evocata come pratica curativa tradiziona­le. Ma non ditelo al bambino che sta danzando a un ritmo che nella vita di tutti i giorni non ascolta, perché sopraffatt­o dalle note «corte» e facili dei ritornelli pop.

Così come è meglio non rivelargli che quelle grandi palle color azzurro o rosa pallido che navigano in una specie di labirinto a compartime­nti stagni immaginato da Martin Cordiano nell’installazi­one Common places, sempre all’Arsenale, sono una metafora della solitudine. L’argentino Cordiano, figlio e nipote di imprendito­ri edili, ha voluto riprodurre il senso più profondo dell’abitare: in fondo, anche se conviviamo e conviviamo bene, rimaniamo sempre delle piccole solitudini azzurro sbiadito che navigano in bolle di fantasia, convinzion­i, sogni.

È ora di fare merenda. Se siete ai Giardini, la cosa migliore è portare un bel cestino da casa e accoccolar­si sul prato o sulle gradinate, prendendo qualcosa da bere in uno dei bar. Nel frattempo, se i ragazzi sono grandicell­i, gli si può raccontare la storia di questo posto bellissimo: in origine erano un quartiere popolare di Venezia, poi Napoleone, durante l’occupazion­e francese, volle qui un grande parco e fece abbattere case, chiese e conventi.

Dopo mangiato, ci sta una visita all’opera onirica di Sebastián Díaz Morales, sempre ai Giardini, nel Padiglione delle Gioie e delle Paure: Suspension è un video in cui un uomo si libra nel vuoto. Oppure si va a vedere i cigni di Jana Zelibska, uccelli elegantiss­imi che si librano in un gioco di ombre. Se siete all’Arsenale, impossibil­e rinunciare alla montagna di palle di stoffa colorata che ha assemblato Sheila Hicks, dandogli un titolo impegnativ­o (Scalata al di là dei terreni cromatici) ma l’effetto è strepitoso. Piccola nota da rivelare ai ragazzi: Sheila non è una ragazzina che gioca con i filati, ma è una nonna di 83 anni che si diverte ancora.

E se a questo punto un ragazzo particolar­mente intelligen­te vi chiede: «Ma non ci sono artisti italiani qui?», spiegategl­i che ce ne sono pochi (e portatelo a vedere le installazi­oni di Michele Ciacciofer­a che rievocano la Sardegna) ma ottimi e fategli un regalo. Conducetel­o al Padiglione Italia, curato da Cecilia Alemani, passate attraverso i cristi di Roberto Cuoghi e i video di Adelita Husni-Bey, per dirigervi verso il capolavoro di Giorgio Andreotta Calò, che incrocia architettu­ra, poesia, storia di Venezia.

E godetevi un «oohh» autentico. Bambino.

Perché adesso Passata la ressa turistica estiva, forse questo è il periodo migliore Tra le cose imperdibil­i, il rammendo d’autore e la magia di Andreotta Calò

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