«Continuate a raccontarla: la cucina ci rende umani»
IL DIBATTITO
Abbiamo deciso di aprire un dibattito sul tema del foodwriting. Perché ci siamo resi conto che in Italia è considerato ancora giornalismo di serie B, nonostante racconti la vita di tutti noi. Ogni venerdì pubblichiamo il contributo di foodwriter che ci spiegano che cosa significa importante scrivere di cibo e di cucina? Certo che lo è. Il nostro modo di mangiare ha plasmato il pianeta. Cucinare è ciò che ci distingue dagli animali. L’antropologo Richard Wrangham sostiene in modo assai convincente che è stata la cucina a renderci umani: consentendoci di estrarre più calorie con minor sforzo, la cottura dei cibi ha contribuito allo sviluppo cerebrale dei nostri antenati. Le testimonianze storiche non mentono: il cibo ha sempre interessato gli esseri umani, i quali hanno dato avvio a una lunga tradizione di scritti culinari risalente almeno a quattro millenni or sono. Durante la dinastia Shang in Cina, gli alimenti e i metodi di cottura erano considerati talmente importanti che il primo ministro Yi Yin amava paragonare il mondo a una cucina e il buon governo al saper cucinare. Il rispetto nei confronti del cibo non si limitava certo né all’Asia né ai tempi più antichi. All’inizio del terzo secolo d.C., per esempio, il greco Ateneo di Naucrati scrisse «I deipnosofisti», un’opera letteraria a proposito di un banchetto.
I nostri antenati sapevano che scrivere di cibo può essere tanto un’arte quanto un gesto politico. Nessuno ne fu così consapevole come il popolo francese, che ha saputo imprimere alla sua cucina un’identità nazionale, per poi lanciarla alla conquista del mondo. Il più antico ricettario francese è il «Cuisinier françois» del 1651. Altri libri erano stati già pubblicati in Europa («Il trinciante» in Italia nel 1581 e «The scrivere di cibo. Dopo Pollan, Hesser, Marchi, Wilson, Di Marco, Padovani, Tommasi, Attlee, Corradin, Ottaviano, Del Conte, Segrè, Sifton, Liverani e Sarcina, proseguiamo con Reichl. accomplished cook» in Inghilterra nel 1588) ma nessuno era contraddistinto da precisa nazionalità. I francesi, invece, si impadronirono del linguaggio del cibo con tale abilità che ancora oggi la cucina è dominata da terminologia francese per indicare tecniche (à la mode, sauté), brodi (consommé, bouillon) e salse (mayonnaise, béchamel).
A che punto allora abbiamo cominciato a mettere in discussione l’importanza del saper scrivere di cibo, il cosiddetto food writing? Il declino di questa attività è da ricondursi alla metà del secolo scorso. Fino ad allora persino le signore della classe media avevano in casa il cuoco o la cuoca. La scomparsa della servitù è coincisa con l’accelerazione dell’industrializzazione del cibo, e man mano che tutte le attività di agricoltura, pesca e allevamento si sono meccanizzate, le forze di mercato hanno fatto di tutto per assicurarsi che il consumatore non si ren- desse conto di come viene prodotto ciò che finisce nel piatto. Una strategia è stata quella di svalutare la cucina, definita come «lavoro della donna», e di relegare il dibattito sul cibo a riviste femminili, limitandosi a pubblicare qualche ricetta.
Entro la fine del secolo scorso, tuttavia, si è finalmente capito quanto fosse caduto in basso il nostro sistema di alimentazione. L’agricoltura moderna sta avvelenando terra, aria e acqua. Metà del mondo soffre di malnutrizione mentre l’altra metà è obesa. I lavoratori del settore vengono sfruttati e i consumatori buttano nella spazzatura quasi il 50 percento del cibo prodotto. Ben presto però ci si è accorti che il cibo è troppo importante per essere racchiuso in qualche ricetta ed è nata una nuova letteratura, con l’intento di scrutare ogni aspetto di quello che mangiamo. E questo è un bene. Speriamo che non sia troppo poco nè troppo tardi. La questione non è se il cibo è o non è argomento meritevole dei nostri più eccelsi scrittori, quanto piuttosto come mai non sia stato finora più diffusamente esplorato. (traduzione di Rita Baldassarre)