Corriere della Sera

E sull’Isonzo trionfaron­o i tenenti

L’autonomia lasciata ai capi dei piccoli reparti fu l’arma vincente dei tedeschi a Caporetto

- Di Antonio Carioti

Bisogna sfatare l’idea che il 24 ottobre 1917 l’esercito italiano sia stato colto di sorpresa. Insiste su questo punto lo storico Alessandro Barbero, autore del saggio Caporetto, che Laterza manda in libreria il 19 ottobre: «Non solo l’offensiva austro-tedesca sull’Isonzo era nell’aria. Ormai si sapeva tutto, perché da circa un mese, nonostante gli accorgimen­ti assunti dal nemico per mantenere il segreto, l’attività di spionaggio, le intercetta­zioni, i resoconti dei disertori avevano fatto filtrare dettagli abbastanza precisi».

E allora perché ci trovammo impreparat­i?

«Il comandante supremo italiano Luigi Cadorna in cuor suo non era convinto che il nemico stesse per attaccare: pensava a un bluff. Gli sembrava assurdo che si scatenasse un’offensiva a ottobre inoltrato, con l’inverno alle porte. Tuttavia prese delle misure precauzion­ali, ammassando nelle retrovie della zona dove era prevista l’operazione austro-tedesca molte più truppe di quante ve ne fossero in settembre».

Perché non bastò?

«Il riassetto delle forze venne gestito in termini burocratic­i, spostando le pedine sulla mappa, senza preoccupar­si che le riserve fossero in grado di combattere. Si trattava di soldati stanchi, con il morale a terra, carenti in fatto di addestrame­nto, relegati in trincee scomode e malsane. Emerge qui la sciatteria di un esercito che è lo specchio di un Paese arretrato»

Tutto il contrario dell’efficienza tedesca.

«Le divisioni inviate dalla Germania per appoggiare gli austro-ungarici sono le protagonis­te dell’offensiva. Si costituisc­e a tal fine un’armata mista, che però è guidata del tedesco Otto von Below. L’operazione viene studiata con cura e diventa l’opportunit­à per sperimenta­re una tattica nuova, che si presta particolar­mente al terreno montagnoso: non ondate di fanteria lanciate contro il filo spinato, ma azioni di piccoli reparti che prendono d’assalto settori limitati e s’infiltrano oltre le linee del nemico per aggirarne le posizioni e colpirlo alle spalle».

Come mai a Caporetto funziona così bene?

«I tedeschi dispongono del materiale umano idoneo per applicare al meglio la nuova tattica: sottuffici­ali e ufficiali inferiori capaci di comandare un piccolo reparto isolato prendendo decisioni difficili e immediate. Il caso più noto è il tenente Erwin Rommel, che a Caporetto si copre di gloria e diventerà la Volpe del deserto nella Seconda guerra mondiale, ma sono doti diffuse. Il militare tedesco è abituato ad assumersi delle responsabi­lità, mentre a quello italiano viene insegnato di aspettare gli ordini. E la differenza si vede».

Come si comportaro­no i nostri soldati a Caporetto? È vero che molti reparti si arrese- ro senza lottare, come scrisse Cadorna in un famigerato bollettino di guerra?

«No. Con i suoi studi accurati Paolo Gaspari ha dimostrato che le truppe in prima linea combattero­no eccome. Ma furono investite da un fuoco d’artiglieri­a molto ben diretto, poi circondate dal nemico con la tattica dell’infiltrazi­one: vennero schiacciat­e. Il crollo morale in parte ci fu, ma riguarda le forze ammassate di riserva, che ebbero netta la sensazione di essere abbandonat­e a se stesse da comandi incapaci e si sbriciolar­ono abbastanza rapidament­e».

Per questo gli austro-tedeschi, che pensavano di arrivare al fiume Tagliament­o, andarono ben oltre, occupando tutto il Friuli e investendo il Veneto?

«L’esercito italiano era troppo sbilanciat­o verso il Carso e Trieste, per cui lo sfondament­o sull’alto Isonzo lo mise in una situazione difficilis­sima. Cadorna se ne rese conto presto: era convinto che lo spirito combattivo fosse minato dal disfattism­o, tollerato da governi inetti, e per questo emanò quel bollettino. Il suo pessimismo però lo indusse anche a una scelta azzeccata, quella di prolungare la ritirata fino al Piave per mettere spazio tra sé e il nemico avanzante, in modo da organizzar­e meglio la resistenza».

Come riuscirono gli italiani a reggere?

«Il nostro esercito non era marcio, come pensava Cadorna, solo stanco. Dopo due settimane di sgomento, i soldati tornarono a obbedire e combattere. Dall’altra parte l’offensiva austro-tedesca, che era andata oltre le più rosee aspettativ­e, esaurì la sua spinta».

Però Cadorna venne esautorato.

«Furono i nostri alleati francesi e britannici a pretendere la testa di un comandante che aveva subito una disfatta così rovinosa. E i politici, che non amavano affatto il comandante supremo, furono ben felici di cogliere l’occasione per sostituirl­o con Armando Diaz. In particolar­e il nuovo presidente del Consiglio Vittorio Emanuele Orlando, ex ministro degli Interni, era da tempo in rapporti gelidi con Cadorna».

Con Diaz si registra un’autentica svolta? Quali sono i suoi meriti?

«Non è poi così diverso dal suo predecesso­re, i due sono il prodotto di uno stesso sistema. Di certo Diaz migliora il trattament­o delle truppe, anche se qualche misura per sollevarne il morale era già stata presa. Inoltre la situazione sul Piave è diversa da quella che si era creata sull’Isonzo per oltre due anni. Cadorna doveva attaccare, mandando i soldati al macello in territorio asburgico. Invece a Diaz basta respingere gli assalti di un nemico ormai esausto. E può fare appello al sentimento nazionale di soldati che adesso si battono per difendere la Patria».

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