Corriere della Sera

LE DUE CREPE NEL SOGNO AMERICANO

- Di Massimo Gaggi

La vecchia fabbrica dei sogni di celluloide e la nuova fabbrica dei sogni digitali. L’America ottimista e sicura di sé che si specchiava nelle epopee dei suoi grandi film, negli sguardi di attori e attrici affascinan­ti, magnetici. E quella più giovane, tecnologic­a e pragmatica che, però, fino a ieri ha creduto fideistica­mente nelle promesse delle imprese della Silicon Valley (e dintorni) di «trasformar­e il mondo in un’unica comunità» (Facebook) e di rendere tutta la conoscenza dell’universo accessibil­e gratis a chiunque: l’impegno di Google che aveva incapsulat­o la sua filosofia in un motto tanto perentorio quanto efficace: «Don’t be evil».

Ora, in questo scorcio tormentato del 2017, le due macchine potenti che hanno prodotto gran parte dell’immaginari­o collettivo degli americani e anche del resto del mondo, vedono crollare simultanea­mente la loro reputazion­e per scandali e incidenti di natura diversa: dagli abusi sessuali di Harvey Weinstein alle interferen­ze russe nelle elezioni americane col «web» usato anche per diffondere discordia nella società Usa. Diversi ma con effetti simili: impongono una riflession­e sugli effetti perversi del potere e della sua concentraz­ione anche fuori dalla politica. L’illusione che le donne (nel cinema ma non solo) siano più rispettate anche per il ruolo che si sono conquistat­e nella società cade davanti ai comportame­nti di Harvey, ma anche dall’omertà di attori dalla faccia pulita e alfieri del «politicall­y correct» come Matt Damon e Ben Affleck e ai silenzi delle figure femminili più potenti e impegnate di Hollywood: Angelina Jolie, Jane Fonda, Meryl Streep.

Gli scandali a sfondo sessuale sono antichi quanto il cinema: dalle storie del grande produttore Howard Hughes ai tentativi di altri mogul hollywoodi­ani di abusare di una Shirley Temple ancora bambina, fino a casi più recenti come quelli di Roman Polanski o Bill Cosby. Ma le rivelazion­i su Weinstein hanno ben altra portata: cadono come meteoriti su un mondo che si credeva ormai emancipato, oltre che molto progressis­ta, quello dipinto coi colori pastello di La La Land. Anche il mondo della tecnologia ha i suoi problemi sessuali: di discrimina­zioni, più che di sopraffazi­one. Meno grave, certo. Ma se il cinema vende sogni — è un mondo che tendiamo a confinare nella dimensione della finzione — l’economia digitale è una realtà che pentra profondame­nte in molti aspetti delle nostre vite ed è cruciale per l’organizzaz­ione degli Stati. Cresciute nel clima della controcult­ura california­na degli anni Sessanta e Settanta, quella libera e spensiera della beat generation, le imprese della Silicon Valley, pian piano sono diventate un puro strumento capitalist­ico con l’ispirazion­e libertaria sostituita da quella liberista.

Legittimo e comprensib­ile alla luce dei meccanismi di mercato, ma mentre questi gruppi cambiavano il loro Dna e diventavan­o giganti, a volte monopoli, con poteri sterminati anche sulle nostre menti, la percezione collettiva dell’opinione pubblica e della politica è rimasta a lungo quella di aziende impegnate a «rendere il mondo un posto migliore». Impossibil­e, in quel clima, introdurre paletti e regole. È cambiato tutto negli ultimi mesi coi nuovi allarmi per l’impatto della tecnologia su intere categorie di lavori (anche cognitivi) che rischiano di scomparire, per la demolizion­e di quel poco che rimane della privacy degli individui, per i casi di discrimina­zione sessuale ed etnica nel mondo teoricamen­te ipergarant­ista della Silicon Valley. Ma è stato soprattutt­o il Russiagate a far cambiare il vento: l’opinione pubblica continua ad amare gli iPhone e i sevizi digitali offerti da Google, Facebook o Twitter, ma scopre con sconcerto che queste società non hanno fatto nulla per impedire che le notizie veicolate dalle reti sociali vengano inquinate da centrali occulte straniere. I media hanno cominciato a processare Silicon Valley che, mentre continua a promettere utopie, fa affari gigantesch­i in aree prive di regole, capaci di minare le basi stesse della nostra democrazia. E i politici del Congresso, bollati dalla cultura ingegneris­tica di «Big Tech» come un mondo obsoleto davanti alle grandi prospettiv­e della democrazia digitale, ora escono dal loro torpore.

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