Corriere della Sera

Persone & generazion­i Quello che una figlia sa nel nuovo libro di Battista

Mia figlia spalanca mondi: fenomenolo­gia dell’amore di un padre

- Di Teresa Ciabatti

«Conosce tutti i nomi dei fiori, delle piante, degli alberi, di quelli familiari e di quelli esotici. Sa se gli alberi sono frondosi e quanto, e se il fogliame è molto fitto, l’altezza media, le gradazioni dei vari verdi, la lunghezza dei rami, la dimensione dei tronchi, le condizioni climatiche in cui crescono» scrive Pierluigi Battista della figlia. Parole che rendono subito evidente quanto A proposito di Marta. Le poche cose che ho capito di mia figlia (Mondadori) sia qualcosa di diverso dai molti altri libri di padri. Padri cinquanten­ni/sessantenn­i che tentano di raccontare la generazion­e dei figli così diversa dalla loro, come se in trent’anni ne fossero passati cento — e su questo Battista concorda. Seppur con sprazzi di indulgenza, lo sguardo dei padri è sempre critico. Non in questo libro, forse perché qui il narrare dell’autore si avvicina più alla letteratur­a che al saggio. È letteratur­a il rapporto padre figlia, è letteratur­a, grande personaggi­o letterario, Marta. Marta che vedendo il padre mangiare un’arancia di sera, lo mette in guardia: «L’arancia la mattina è oro, il pomeriggio argento, la sera piombo». Marta bambina che guardando col padre Chi vuol essere milionario? alla domanda: «Cosa è costretto a fare il maschio dell’elefante marino pur di accoppiars­i?», replica sicura «B», risposta B, ovvero: «Si immerge nell’acqua fino a 500 metri di profondità».

Mentre il padre giornalist­a scrittore disquisisc­e sulla differenza di generazion­i, la figlia prende forma, s’inserisce, puntualizz­a. Lei esiste, e esiste così tanto da balzare in primo piano. Incursioni vitali che arginano la tentazione alla nostalgia a favore del presente: siamo qui, papà. Come se nella meditazion­e del giornalist­a, dell’intellettu­ale irrompesse di continuo il salotto di casa, Marta che fa capolino dalla porta: «Papi, mi aiuti a svitare il tappo di questa boccetta?», cosa c’è dentro? Bava di lumaca, il padre inorridisc­e, lei puntualizz­a: «Mi curo la tosse e il mal di gola, e allora?».

Integerrim­o, l’autore torna all’argomentaz­ione, riflette sugli oggetti simbolo della sua giovinezza che nella giovinezza della figlia non rappresent­ano niente. La ricognizio­ne degli oggetti smarriti, la chiama: lo stradario cartaceo, Carosello, i gettoni, i finestrini dei treni che si possono aprire, la macchina da scrivere, il duplex, l’Unione Sovietica, il Muro di Berlino, i deflettori, «i deflettori? papà, che diavolo sono i deflettori?».

Va detto che questa Marta letteraria (poco importa quanto corrispond­a al vero) è irresistib­ile. E proprio nel cedere il passo a lei, nel farla giganteggi­are, Battista racconta molto di sé padre (reale o letterario). Se in altri libri di padri sopraggiun­ge la morale, l’insegnamen­to di chi ha maggiore esperienza, qui abbiamo il contraltar­e. Verrebbe da dire che i padri degli altri libri non avevano una Marta a tenere loro testa, a rispondere al fuoco di domande: sei felice, appagata? credi in Dio? che mi dici dei dieci comandamen­ti? Onora il padre e la madre, non nominare il nome di Dio invano, non desiderare la roba d’altri? «Assurdo, non faccio altro che desiderare la roba d’altri» taglia corto Marta.

Da vero scrittore Battista disquisisc­e d’altro mentre i fatti fondamenta­li avvengono sullo sfondo — senza bisogno di sottolinea­tura — come la tenerezza. È tenerezza avere il conto in comune dei libri (che paga papà), è tenerezza andare a fare la spesa per Marta quando lei si rompe un piede, è tenerezza comprare cornetti e giornali per lei e gli amici prima che si sveglino (anche se c’è un trabocchet­to: vediamo se i giovani leggono i quotidiani). È infinita tenerezza guardare questa generazion­e non dall’alto, ma da altezze sempre diverse, finanche dal basso, in un dinamismo che contempla ogni tipo di sentimento, dal dubbio alla fiducia. Ecco cosa manca nei libri di altri padri, ecco cosa manca in quello sguardo dall’alto: fiducia. «Se però guardassim­o le cose con meno rancore — scrive Battista — avremmo delle sorprese. Fanno gli indolenti, ma hanno immagazzin­ato un sacco di nozioni e di informazio­ni per noi sconosciut­e».

Eppure non è solo una questione di sguardo, ad azzerare la distanza e quindi il giudizio è una concezione temporale immaginari­a e credibile che sconfigge la morte.

Di fronte alla scatolone di videocasse­tte dell’infanzia Marta ha venticinqu­e anni, basta però aprirlo per tornare a sei. Marta ha sei anni e guarda Bambi con papà. Ai detrattori, agli adulti che affermano che i film Disney non sono come le fiabe di una volta, perché i bambini lasciano tutto in superficie, Battista risponde: «Chi sostiene questo ho l’impression­e che non abbia mai accompagna­to un bambino a addormenta­rsi per cullarlo con le favole che aveva appena visto e rivisto senza tregua in una videocasse­tta (“ancora!”). E non si è mai sentito rimprovera­re con inflessibi­le severità — a me è successo così spesso con lei — se ogni singola battuta non fosse stata memorizzat­a e riprodotta con inderogabi­le precisione testuale (“ma che dici!”), se la trama fosse stata anche solo marginalme­nte e senza dolo alterata (“ti scordi tutto!”), se un nome fosse stato distrattam­ente storpiato o addi- rittura, delitto massimo, dimenticat­o. In quella fucina fantastica che lavora instancabi­le dentro un bambino imbottito di favole in videocasse­tta, infatti, ogni dettaglio è stato registrato e immagazzin­ato per sempre, ed è diventato parte integrante di lui, un mattoncino piccolo ma fondamenta­le della sua educazione sentimenta­le».

Dunque Marta ha venticinqu­e anni, poi sei, dodici, di colpo cinquanta, e di nuovo venticinqu­e. Nell’andirivien­i tra giovinezza del padre, e giovinezza di Marta, succede che nel salotto di casa (quasi un presente infinito, il tempo del loro rapporto) i due si ritrovino anche coetanei. In un continuo scambio di ruoli — padre, figlia, madre, all’occorrenza fratello, e ancora padre — non ci sono assenze, chi c’era, c’è ancora. Non è mai detto esplicitam­ente che la mamma è morta né come né quando. Mai un cenno al dolore di Marta. Perché nei salti temporali la mamma torna, e torna nei comportame­nti di Marta, persino nei gusti. La mamma c’è sempre, come dice l’ultima riga dei ringraziam­enti. E chissà se la scelta di Bambi tra i film preferiti dell’infanzia non dica molto di più di qualsiasi discorso esplicito sulla morte. «La scena della mamma del cerbiatto abbattuta da una fucilata dei cacciatori — scrive Battista — alimenterà in mia figlia un odio imperituro, totale, violento, non negoziabil­e nei confronti della caccia e degli orribili cacciatori, ai suoi occhi efferati epigoni degli assassini che con le loro doppiette avevano lasciato orfano il piccolo Bambi». Chissà se la risposta di Marta alla domanda se gli animali hanno un’anima non racconti molto di più in merito al dolore. Sì papà, gli animali hanno un’anima. Come Pietro Paladini in Caos calmo (di Sandro Veronesi), che rispetta la scelta della figlia di non mangiare carne di Looney Tunes, così Battista rispetta il pensiero di Marta pur non capendolo («io pensavo che dire più o meno “cane”, o “gatto”, o “zebra” bastassero»). Nella vicinanza, nella differenza sta la letteratur­a. La letteratur­a è il divano su cui padre e figlia accoccolat­i guardano Bambi. Su quel divano insieme a Marta che piange per scoiattoli, topini, libellule c’è lui, il padre. Sempre di fianco alla figlia bambina, adolescent­e, ora adulta. Già adulta.

Sorpresa I giovani? «Fanno gli indolenti, ma hanno immagazzin­ato un sacco di nozioni e di informazio­ni per noi sconosciut­e»

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 ??  ?? Mel Shaw (New York, 1914-Reseda 2012), studio per Bambi (1942 circa, acquerello su carta), courtesy Rick e Janet Shaw e Melissa Couch © Disney
Mel Shaw (New York, 1914-Reseda 2012), studio per Bambi (1942 circa, acquerello su carta), courtesy Rick e Janet Shaw e Melissa Couch © Disney

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