L’EQUILIBRIO TRA CRESCITA E BENESSERE COLLETTIVO
Lo sviluppo non può essere solo economico deve riguardare la giustizia, la sicurezza e l’occupazione (soprattutto femminile), riducendo le disuguaglianze
Prendendo spunto dalla presentazione e discussione della annuale legge di Bilancio, è stato dal governo dichiarato l’intendimento di andare oltre il dato aggregato del Pil, ragionando piuttosto su più articolati indicatori ed obiettivi di benessere collettivo. Un apposito Comitato, costituito in base alla legge 163 del 2016, ha infatti focalizzato dodici indicatori di attuale e/o potenziale qualità della vita. Si va dall’efficienza della giustizia civile al controllo della criminalità proditoria (furti e rapine); dalla riduzione dell’abbandono scolastico alla crescita dell’occupazione femminile; dal contrasto all’obesità al monitoraggio del processo di invecchiamento della popolazione; dal fronteggiamento della povertà assoluta a quello delle crescenti diseguaglianze sociali.
Ai più anziani di noi non sfuggirà che una tale dilatazione del campo di attenzione ha risonanze antiche, da anni 60: la si ritrova infatti nella kennediana tensione al futuro che faceva dire a Bob Kennedy che «il Pil non tiene conto della salute delle nostre famiglie, della loro educazione, della gioia dei loro momenti di svago, del funzionamento dei nostri tribunali, dell’equità o delle distanze nei rapporti fra noi, dell’inquinamento dell’aria e del pericoloso consumo di sigarette». Ma voglio ricordare che la si ritrova nella tensione dei molti di noi che negli stessi anni, per tendere ad uno sviluppo «integrale» (non era ancora di moda il termine «sostenibile») non pensarono solo alla crescita quantitativa, ma piuttosto alle varie componenti della qualità della vita. Chi si rilegge il Rapporto Saraceno del ’62 troverà capitoli e capitoli dedicati ai settori di azione pubblica direttamente funzionali all’aumento della qualità della vita (ricordo, con un certo pudore, le mie pagine sulla formazione professionale, sullo sport, sulla musica e financo sui balletti classici).
Metto da parte la indebita nostalgia per quegli anni e mi limito a riscontrarne l’analogia con l’attuale forte intenzione
di «andare oltre il Pil» e di immaginare indicatori e politiche di benessere. I temi non sono molto diversi da allora (tranne la specifica attenzione all’obesità, fenomeno non di attualità per gli italiani dei primi anni 60); ma quel che colpisce positivamente è il significativo meritorio fascio di luce che lo specifico Allegato al Def concentra su due prioritari problemi (l’aumento delle distanze sociali e la povertà assoluta) che hanno grande impatto d’opinione, ma che è stato finora difficile ricondurre ad indicatori statistici precisi.
Io parteggio, come tutti gli osservatori di cose italiane, per una attenzione forte a questi due problemi. È giusto che il governo se ne prenda carico, sviluppando un intenso lavoro di ricerca socioeconomica (magari anche di campo, sulle diverse situazioni locali). Ma non riesco a convincermi che la complessa dinamica dei problemi indicati possa essere ridotta in indicatori quantitativi; in un tendenziale programmatico del benessere; e in conseguenti atti politici ed amministrativi.
I problemi ci sono, naturalmente, ma sono così politicamente significativi da far dire «videant consules», chiamando con ciò in causa una responsabilità politica che, utilizzando
ogni elaborazione statistica, riprenda il suo triplice mestiere: di fare sintesi di quel che avviene nella realtà; di proporre target collettivi capaci di coinvolgere emotivamente tutti noi; e soprattutto di stabilire modalità amministrative capaci di non far restare tutto su enunciazioni puramente esigenziali. Su quest’ultimo punto (la traduzione degli interventi programmati in una attiva azione amministrativa) noi trovammo negli anni 60 una totale sconfitta; e continuiamo a credere che proprio su di esso si giuochino anche i futuri intendimenti di perseguire benessere e qualità della vita.
Ricorsi storici La questione era stata posta anche negli anni 60 quando non c’era ancora il termine «sostenibile» Orizzonte Bisogna andare oltre una visione concentrata soltanto sull’aumento del Pil nazionale