Corriere della Sera

LA FRONTIERA CHE RINASCE

LÀ DOVE FIORIVA LA VECCHIA INDUSTRIA OGGI A BOLZANO ABITA L’INNOVAZION­E

- Di Massimilia­no Del Barba

La schiuma di alluminio è un materiale di derivazion­e militare. È stata progettata per proteggere i tank dai proiettili d’artiglieri­a pesante. Stabile e resistente alle alte temperatur­e, grazie alla dispersion­e uniforme dei gas nella matrice metallica a forma di nido d’ape, assorbe gli impatti un maniera eccezional­e e, per questa sua qualità, viene utilizzata per rivestire le blindature dei mezzi da combattime­nto.

L’equipe di tecnici, strutturis­ti e architetti a cui la Provincia autonoma di Bolzano ha affidato nel 2007 la rifunziona­lizzazione di uno dei simboli dell’italianizz­azione forzata del Südtirol durante il Ventennio l’ha però scelta per tutt’altro motivo: un tributo filologico e storiograf­ico a quella che fino agli anni Settanta è stata la più grande fabbrica d’alluminio del Paese.

Dove, appena prima che l’Isarco si getti nell’Adige, fra pochi giorni verrà inaugurato alla presenza del governo nazionale il monolite nero progettato dallo studio britannico Chapman Taylor e dall’architetto altoatesin­o Claudio Lucchin, per più di mezzo secolo l’alta tensione dei processi elettrolit­ici ha trasformat­o le colate continue d’allumina in vergelle, lastre e placche per l’industria pesante nazionale.

Fu il Duce a volere fortissima­mente una Bolzano manifattur­iera. Fu quella la strada scelta per trasformar­e il Sud Tirolo in Alto Adige: metterci le fabbriche, favorendo così l’immigrazio­ne dal Veneto e dal Sud di nuove famiglie di operai. Non fu facile. La strada asburgica che saliva verso il Brennero, negli anni Trenta, era lontanissi­ma dal triangolo industrial­e di Torino, Genova e Milano e l’economia locale da sempre aveva ruotato attorno ai prodotti della montagna:

allevament­o nelle convalli e, sui versanti solatii della conca principale, un’agricoltur­a di sussistenz­a dominata dalle logiche del maso chiuso. Mussolini dovette metterci del suo per convincere il livornese Guido Donegani a portare lì, quasi a ridosso dei nuovi quartieri razionalis­ti disegnati oltre al ponte Talvera da Marcello Piacentini, la sua Montecatin­i. Di una cosa, però, Bozen,

era ricca. Era ricca di energia.

La stessa energia idroelettr­ica che, alla fine dell’Ottocento, aveva permesso alla Lombardia di intercetta­re il vento del cambiament­o portato dalla Seconda rivoluzion­e industrial­e nordeurope­a. Le lunghe condotte d’acciaio fatte costruire da Francesco Giuseppe scendevano in picchiata dai laghi alpini elettrific­ando il fondovalle: una manna, per un’azienda che aveva bisogno di un milione di kilowattor­a di elettricit­à (praticamen­te l’intero consumo annuale dell’Alto Adige di oggi) per sfornare 25 milioni di tonnellate di alluminio all’anno, un terzo della produzione italiana.

Le imponenti vetrate, le diverse tonalità di rosso delle murature in klinker, i due forni per il primario e, poco distanti, i capannoni per gli estrusori e le laminazion­i a freddo. Mentre L’Italia si costruiva il suo Impero di sabbia di là dal Mediterran­eo, sui dodici ettari espropriat­i di un meleto nacque l’Alumix.

E, fin dall’inizio, non fu sola. Oltre la strada arrivarono contempora­neamente l’acciaio di Giorgio Enrico Falk e di suo figlio Bruno, la Società italiana per il Magnesio e gli autocarri di Vincenzo Lancia: diecimila operai, diecimila famiglie italiane attirate dalle sovvenzion­i erogate dal Consiglio nazionale delle corporazio­ni che cambiarono per sempre il volto e la parlata della bassa valle dell’Isarco.

Capannoni, fognature, uffici, case popolari, le mense che davano da mangiare due volte al giorno agli ex mezzadri del Polesine e ai braccianti fuggiti dalla miseria delle campagne calabresi e pugliesi: cattedrali che ancora si guardano, lungo quella che si chiamava via Razza e che è poi stata intitolata, certo non a caso, ad Alessandro Volta.

Qui ancora oggi l’Iveco produce i carri Lince, mentre al posto dei Falk ci sono l’inox e le leghe di nichel del gruppo Valbruna. E da qui, malgrado la fine del boom postbellic­o, malgrado la crisi energetica degli anni Settanta, malgrado le ristruttur­azioni dei piani D’Avignon, soprattutt­o malgrado la più dura crisi economica che l’Italia ricordi, Bolzano riparte. Da una manifattur­a certo più snella, digitalizz­ata nei suoi processi d’automazion­e ispirati alla lean production e all’Industry 4.0. E poi, appunto, dai laboratori, dalle imprese e dalle start up raccolte attorno al TechPark Nature of Innovation.

La schiuma d’alluminio avvolge il nuovo tempio altoatesin­o dell’innovazion­e, ma l’antica torre piezometri­ca eretta nel 1934 resta lì, silenziosa, a ricordarci da dove veniamo.

In quella che era la Alumix, si intercetta­va il vento della Seconda rivoluzion­e industrial­e europea e le lunghe condotte d’acciaio dai laghi portavano l’energia

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Memoria Una foto storica della vecchia fabbrica Alumix, nata negli anni della espansione fascista, un tempo grande polo industrial­e

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