Corriere della Sera

La scheda

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Cosa è sopravviss­uto, nell’autunno 2017, del «Velaschism­o»?

«Mai esistito. Sono morte le grandi ideologie politiche ma alla gente ne servono altre: danno sicurezza. Il Guardiolis­mo, il Mourinismo… Il mio è un lavoro pragmatico, non ideologico. Io non credo alla verità unica, men che meno nel modo di gestire le persone».

Julio Velasco di La Plata, guru del volley, a 65 anni, da c.t. dell’Argentina, vive a Bologna. Dove — cittadino italiano dal ‘91 — vota. «Chi? Per carità, cambiamo discorso...». Nella pallavolo italiana c’è un prima e un dopo Velasco. Sono trascorsi 28 anni dal primo oro europeo, 27 dal primo mondiale, 21 dall’argento di Atlanta ‘96, primo arrembaggi­o al tabù dell’oro olimpico, eppure il totem è ancora conficcato al centro del villaggio. «Incredibil­e». Parliamone.

Velasco era (ed è) più tecnica o psicologia?

«Il lavoro dell’allenatore è una summa di fattori. La tecnica è uno strumento, il gioco un’altra cosa. La psicologia non basta. Nella musica è importante suonare bene. Nella letteratur­a scrivere bene. Nello sport giocare bene».

I pilastri della sua formazione?

«Io non funziono così. Lavoro sulle idee, le prendo dappertutt­o: ambiente, cinema, politica, arte. Per un allenatore la cosa più importante è capire il gioco. Poi le persone. Per portare avanti le idee serve una metodologi­a. Io ho la mia, uguale a nessun’altra. Ho letto la biografia di Phil Jackson e mi ha deluso: lo zen nel basket, okay, ma alla fine non dice niente. Ho studiato cinque anni filosofia. Eraclito, il primo pensatore dialettico, mi ha condiziona­to molto. Ma col tempo si cambia. Mi piace imparare: negli ultimi anni sto studiando come funziona il cervello. Interessan­tissimo».

Un esemplare onnivoro, quindi.

● Julio Velasco è nato a La Plata (Argentina) il 9 febbraio 1952. È cittadino italiano dal 1991.

● Dopo Jesi e Modena, è stato c.t. azzurro degli uomini (‘89’96) vincendo tutto tranne l’oro olimpico e delle donne (‘97-’98).

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