IL CAPITALE UMANO
Bologna ospita la Biennale Foto/Industria, un’ampia riflessione sul rapporto con le macchine. Uno scrittore (ricorrendo alla letteratura) ci spiega perché la nostra complessità sarà sempre superiore UOMO E LAVORO, RELAZIONE DIFFICILE MA L’AMORE VINCE SUL
Quando si tratta di uomini e macchine, un certo radicalismo è indispensabile. Se siamo in presenza di entrambi gli elementi, quello umano e quello metallico, il calore del sangue e il clangore dei pistoni, è naturale che l’uno debba sottomettersi all’altro. L’unica armonia possibile fra uomo e ferro è nell’asservimento. Lo si sfrutta, o ci si lascia sfruttare.
Questo è perfino un po’ scontato in un’epoca nella quale non si capisce bene se occorra lavorare per vivere, o vivere per lavorare. Il rapporto fra noi e le macchine, cioè le fabbriche, l’industria, non è mai stato del tutto chiaro. Anzi. Ogni romanziere l’ha interpretato a modo suo: da napoletano, ricordo subito La dismissione, del compianto Ermanno Rea, ma anche i futuristici George Orwell e Isaac Asimov, nelle cui pagine la fantascienza diventa spesso mero pretesto sociologico per interrogarsi proprio sul rapporto fra l’uomo e la macchina. Pur rivelandosi, oggi, in tutta la sua attualità, la questione è evidentemente eterna. Nata con l’uomo, scomparirà con la sua scomparsa.
L’evidenza, per ora, ci dice che di un vero equilibrio non si può parlare, ma solo di sconfitte e di rivalse, di eccessi e straripamenti. È così in ogni rappresentazione, da ogni angolatura. Nella narrativa, ma anche nella musica (un caso su tutti: i Pink Floyd), nel cinema (in Metropolis di Fritz Lang, come spesso accadrà anche in seguito, la disputa si traduce in lotta di classe). E la fotografia, che è la più iconica delle arti — perché oltre a rivelare delle verità trascina le stesse sul piano della realtà fattuale— ha sempre giocato in questa relazione burrascosa un ruolo da ambasciatrice.
La Biennale di Fotografia dell’Industria e del Lavoro di Bologna, con le sue 14 diverse mostre in 13 sedi storiche del centro cittadino, può essere considerata essa stessa, per vastità e assortimento, una limpida fotografia globale, panoramica, sull’uomo e sulle sue creazioni talvolta troppo riuscite, autoritarie e dispotiche, altre volte quasi affabili. Nel direzionare la propria esistenza, ogni uomo è in società con una qualche macchina. Ma non è mai una società alla pari.
In pittura, alcuni dei ritratti più fulgidi sono quelli di Fernand Léger, e non è un caso se la sua produzione vira bruscamente dopo l’esperienza bellica. Chiamato alle armi, il pittore rimane intossicato dai gas: è durante la convalescenza che inizia a interessarsi al mondo delle fabbriche, dove sono le macchine a lasciar spazio agli uomini, non il contrario.
La più grande esaltazione del primato tecnologico risale, com’è noto, ai futuristi, presso i quali la macchina riscuote la venerazione di un dio. È Marinetti a scrivere su «Le Figaro» che «un’automobile da corsa col suo cofano adorno di grossi tubi simili a serpenti dall’alito esplosivo... un’automobile ruggente, che sembra correre sulla mitraglia, è più bello della Vittoria di Samotracia», ed è sempre Marinetti a scrivere in Lussuria-Velocità: «Io sono in tua balìa!... Prrrendimi! Prrrendimi!». Ma è nelle pagine di Ottiero Ottieri e del suo Donnarumma all’assalto che lo scontro fra carne e ferro diventa più drammatico. Pubblicato per la prima volta nel 1959, il romanzo, che racconta l’esperienza dell’autore nello stabilimento Olivetti di Pozzuoli, subì un tentativo di censura da parte di un dirigente aziendale al quale, in buona fede, Ottieri lo aveva preventivamente sottoposto. Senza immaginare, come spiega nella sua lettera al signor Innocenti, che l’iniziativa venisse accolta con energico diniego.
«Ho fatto tutto questo per un motivo essenziale: la mia disposizione d’animo positiva rispetto al mondo di Pozzuoli, alla mia esperienza in esso; alla fabbrica e al paese. Una disposizione con radici, di idee autobiografiche [...] legata poi ad una particolare nostalgia e gratitudine. Ho intrapreso il libro con quella che pensavo la garanzia di tale mio atteggiamento morale, verso lo stabilimento e verso il Sud». Ottieri inviò poi il romanzo ad Adriano Olivetti, «con il bisogno istintivo — scrive l’autore allo stesso Innocenti — di cercare ancora un parere su qualcosa che mi sta tanto a cuore». Fu il nulla osta di Olivetti, atteso non tanto per questioni legali, ma per lo spirito di correttezza dell’autore, a sbloccare la pubblicazione del capolavoro che uscì per Bompiani. Se l’uomo Ottieri, prima, si era sottomesso alla meccanica dell’industria, l’industria, poi, era rimasta inerme di fronte alla complessità dell’uomo e alla maestosità del suo dolore.