Corriere della Sera

UN PAESE TROPPO TIMIDO

- Di Sergio Romano

Douglas Hurd, ministro degli Esteri britannico dal 1989 al 1995, diceva del suo Paese che sa fare a pugni al di sopra del suo peso. Intendeva dire che il Regno Unito ha tutte le caratteris­tiche di un peso medio, ma si batte, quando sale sul ring, come un peso massimo. Forse esagerava, ma è certamente vero che il Regno Unito, nonostante la scomparsa dell’Impero britannico, ha potuto conservare sino alla Brexit una invidiabil­e credibilit­à internazio­nale.

Se dovessi descrivere per grandi linee il ruolo internazio­nale dell’Italia direi invece che il Paese, soprattutt­o in questo momento, si batte al di sotto del suo peso. Le rivolte arabe, la lunga crisi del Medio Oriente, le guerre americane e le loro ricadute, la crescita dei movimenti jihadisti e degli attacchi terroristi­ci hanno fatto del Mediterran­eo una delle maggiori aree di crisi del mondo. L’Italia è al centro del «suo» mare (qualcuno disse che è una portaerei naturale) ed è inevitabil­mente coinvolta in tutte le vicende che lo interessan­o. Non dovrebbe essere possibile agire nel Mediterran­eo senza tenere conto degli interessi italiani. Credo che il suo governo ne sia consapevol­e e che abbia cercato di dimostrarl­o, in particolar­e durante le recenti vicende libiche. Ma con qualche eccezione (la crisi libanese del 2006 e l’accordo con Gheddafi del 2008), l’Italia è parsa spesso uno spettatore di prima fila, attento e informato, ma frequentem­ente scavalcato da altre potenze, più agili e spregiudic­ate. Nonostante le sue esperienze e conoscenze il Paese sembra afflitto da una crisi di timidezza.

Non gli giova, naturalmen­te, un fronte interno che oscilla fra manifestaz­ioni di nazionalis­mo frustrato e una continua riluttanza ad accettare gli obblighi politici e morali di un impegno internazio­nale. Ne abbiamo avuto una dimostrazi­one nel caso Regeni quando il governo è stato incapace di fare capire ai partiti e ai propri connaziona­li che era possibile protestare ed esigere giustizia senza rinunciare a mantenere in Egitto una indispensa­bile presenza operativa. È questo il tallone d’Achille della politica estera italiana. Vorremmo essere una potenza europea e mediterran­ea, ma non appena una vicenda internazio­nale comporta qualche rischio, si levano nel Paese le voci di coloro per cui ogni crisi è soprattutt­o l’occasione di mettere il governo in imbarazzo. Nelle vicende internazio­nali gli esecutivi hanno bisogno di un forte mandato e sperano di potere contare sulla tregua delle fazioni nazionali. Ma in Italia le opposizion­i si comportano come se la loro principale preoccupaz­ione fosse quella di impedire che il leader del momento possa trarne qualche vantaggio. La stessa strategia si applica anche alle grandi questioni nazionali; e lo constatiam­o ogniqualvo­lta il problema all’ordine del giorno è la riforma della Costituzio­ne. Sappiamo che quella del 1946 è invecchiat­a, ma il timore che la sua riforma possa giovare a chi la ha voluta e proposta, condanna il tentativo all’insuccesso. Naturalmen­te tutto questo accade di fronte a una platea che ci conosce e sa che il Paese è litigioso, quindi meno affidabile di quanto dovrebbe essere una responsabi­le potenza internazio­nale. Sono queste le principali ragioni per cui l’Italia, quando sale sul ring della politica internazio­nale, si batte al di sotto del suo peso.

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Verità In piazza per Giulio Regeni

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