Corriere della Sera

Le mostre sono i mostri dell’arte

Quasi un allarme: allestimen­ti senza ricerca e capolavori messi a rischio per sbancare i botteghini Controcant­o Tomaso Montanari e Vincenzo Trione in un pamphlet per Einaudi demoliscon­o ragioni e prassi di uno dei fenomeni culturali e di costume più visto

- Di Gian Antonio Stella

«Arance, muscoli e segatura». Si chiamava così, al mercato napoletano della Pignasecca alle spalle di via Toledo, un’antica bottega che si vantava di avere tutto: dagli agrumi alle cozze, dalle cozze ai trucioli. Quando chiedevi a ’o bottegaje se avesse la tal cosa, dicono, ti mozzava la domanda in bocca: «’A tengo».

Certo è che certe mostre d’arte, a Vincenzo Trione e Tomaso Montanari, ricordano quell’antica insegna. Del resto, le vite dei due critici d’arte del «Corriere» e di «Repubblica» proprio lì si incrociano, a Napoli. Dove Trione è nato pur insegnando oggi arte contempora­nea a Milano e Montanari insegna arte barocca pur essendo fiorentino. Lontani, apparentem­ente. Il primo così ben inserito da esser preside della Facoltà di Arti, turismo e mercati alla Iulm e aver curato tra l’altro il Padiglione Italia della Biennale 2015. Il secondo così apocalitti­co e sferzante da proporsi, a torto o a ragione, come un perenne bastian contrario a sinistra della sinistra.

Che ci fanno insieme, sulla copertina del libro Contro le mostre edito da Einaudi? Hanno la stessa orticaria... Per amore della bellezza, spiegano, sono diventati intolleran­ti alle «mostre brutte, mal fatte, furbe, sciatte, approssima­tive, raccogliti­cce, imposte da società di produzione private e subíte da amministra­zioni pubbliche allo sbando». Di più: «Mediocri, raccogliti­cce, inutili, dannose e diseducati­ve». E pericolose. Non solo per il messaggio che lanciano al grande pubblico come se lanciasser­o special show televisivi ma pericolose per la stessa integrità dei quadri, delle sculture, dei pezzi che vengono febbrilmen­te spostati da un evento all’altro, da una città all’altra, da un Paese all’altro.

Un vortice febbrile aperto con la grande Exhibition of Italian Art londinese del 1930, voluta dal Duce come «segno portentoso dell’eterna vitalità della razza italiana». Si presero una strizza, quella volta: la nave carica di capolavori immensi fu sorpresa sulla Manica da una violenta burrasca. Eppure, come ha scritto lo storico Francis Haskell, anche oggi «sopra le nostre teste gli aerei sfrecciano carichi di quadri di Tiziano e Poussin, Van Dyck e Goya. Sotto, (…) i curatori di musei e gallerie d’Europa e Stati Uniti si occupano di trasferire dipinti abitualmen­te custoditi nelle sale».

Sono assicurati? Ovvio. Ma il consiglio comunale di un paese lombardo al grande Roberto Longhi che chiedeva in prestito un certo codice miniato, diede una risposta insuperabi­le: «Spiacenti non poter concedere prestito oggetto in parola perché ne abbiamo uno solo». Uno solo è l’efebo di Mozia, una sola la Nascita di Venere, uno solo il Cristo morto del Mantegna…

Con chi ce l’hanno, i due studiosi? Con il «pervasivo fenomeno del “mostrismo” di cui l’Italia è diventata la patria». Con il diluvio di «mostre blockbuste­r» allestite con gli stessi ingredient­i: «Caravaggio e Leonardo, gli impression­isti, Van Gogh, Picasso, Dalí e Warhol. Ne facciamo circa diecimila l’anno, ma dovremmo avere seri dubbi su questa sarabanda. Innanzitut­to perché si tratta quasi sempre di puro intratteni­mento: a pagamento e di bassa qualità. Quasi mai c’è dietro una ricerca originale, e quasi sempre non c’è nulla da imparare: la verità è che privati senza scrupoli e pubbliche autorità senza un progetto mettono a rischio pezzi unici, spesso di valore altissimo».

Quello è il peccato. Ma i peccatori? «Tra i “promotori” di questa situazione», accusano ad esempio Trione e Montanari, c’è Marco Goldin. «Un misto tra uno storico dell’arte, un impresario, un produttore, un manager» che, «sin dagli anni Novanta, ha inventato un format fortunato». Cioè «mostre non elitarie, rivolte a un pubblico di famiglie, dedicate ad alcune tra le star dell’arte moderna e a movimenti iperpop (gli impression­isti, in primo luogo)» su «tematiche facili» come «l’acqua, l’oro, l’azzurro, la neve». Il tutto a caro prezzo. Esempio? «Tutankhamo­n Caravaggio Van Gogh. La sera e i notturni dagli Egizi al Novecento».

«Da una certa fascia di persone, la cultura è intesa come un fatto intellettu­ale», ha risposto in passato lo stesso Goldin, e «chi mi critica punta su questo aspetto, sulla “popolarizz­azione” delle cose che faccio. È come dire che la bellezza è riservata a po-

chi». E i suoi tifosi, certo, pochi non sono. Come sventola il suo sito web, «le mostre da lui curate hanno accolto 10 milioni di visitatori. Per nove volte si è trattato della mostra più visitata d’Italia, mentre per altre quattro di una tra le prime tre». Non bastasse, «per quattro volte le mostre da lui curate si sono classifica­te tra le prime dieci più visitate al mondo dei rispettivi anni». Insomma: lui sì che porta l’arte a tutti!

E allora? «Quali hanno lasciato qualche traccia? Quali sono state davvero necessarie?», ribattono i critici: «È una logica da cinepanett­oni. Un vero imbarbarim­ento. Quasi una perversion­e». Di più: «Si inseguono successo di facciata e facili guadagni. Il botteghino è la misura della riuscita o meno di un progetto espositivo». E giù sferzate sulle «mostre acchiappat­uristimord­i-e-fuggi» per visitatori «attratti soprattutt­o dagli spazi più affollati, la cui efficacia cresce con l’aumentare delle persone che stanno cercando di entrarvi». Così van tutti…

Certo, Trione e Montanari non se la prendono solo coi promoter di quelle che già Federico Zeri bollava come «mostre e mostriciat­tole, spesso insignific­anti, inutili, a base commercial­e e promoziona­le, sempre costose». Ce l’hanno anche con certe fondazioni che «hanno fissato un preciso tariffario per concedere in prestito i loro gioielli» usando ad esempio «Picasso come brand. Anzi, come uno tra i brand più efficaci del nostro tempo. Come Disney, come la Nike…».

Non demoliscon­o tutto. Qua e là scodellano perfino qualche lode. Sanno bene che, quando danno certi suggerimen­ti (tipo quello di adottare come Slow Food «il paradigma del chilometro zero» o di darsi un «proposito per i fine-settimana, il tempo libero, le vacanze: non visitare nemmeno una mostra») rischiano di tirarsi addosso l’accusa di essere degli snob. Anzi, suggerisco­no in positivo un decalogo, una sorta di codice etico che permetta «di certificar­e le mostre che aspirano a essere “virtuose”».

Di fondo, però, resta un’accusa insanabile, destinata a incendiare polemiche, ai «grandi mostrifica­tori» che assemblano «temporanee» standard («da Raffaello a Schiele, da Kandinskij a Pollock, da Giotto a Morandi, da Duchamp a Cattelan») e cioè il peso del contesto. Giusto? Sbagliato? Per ben 44 volte i due critici d’arte battono, ribattono e martellano lì. Fino a scrivere: «Sono, le mostre, il più grande fenomeno di rimozione e oscurament­o dei contesti, insieme a guerre e a catastrofi naturali…».

«Le esposizion­i costituisc­ono la più grande rimozione e oscurament­o dei contesti, insieme a guerre e a catastrofi»

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Johann Zoffany (1733 –1810), La Tribuna degli Uffizi (1776, olio su tela, particolar­e), Windsor, The Royal Collection

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