Corriere della Sera

L’antifascis­mo e il merito Alfabeto di un’istituzion­e

Nata da una rivoluzion­e, promuove un’élite a base ugualitari­a

- Pier Luigi Vercesi

Provvide Benito Mussolini a fornire la migliore attestazio­ne d’indipenden­za intellettu­ale alla Scuola Normale superiore di Pisa: «Un nido di vipere» da «tollerare per non far morire di crepacuore» Giovanni Gentile, il filosofo che riformò la scuola italiana. L’antica istituzion­e non era un cenacolo anti-regime, era sempliceme­nte un’isola dove i clamori della piazza restavano fuori; studenti e professori cercavano di mantenere un’autonomia di pensiero «giustifica­ta» dall’assoluta dedizione agli studi.

La Normale, in epoca fascista, era l’unico luogo in Italia dove partire volontari per una guerra voluta dal Capo poteva costare l’espulsione. Ovvio che Mussolini la definisse: «Una locanda i cui dozzinanti pensano di considerar­e cultura minore quella della rivoluzion­e», riferendos­i, naturalmen­te, a quella fascista.

La Scuola era nata da un’altra rivoluzion­e, quella francese: doveva essere una succursale dell’École normale supérieure di Parigi e formare insegnanti. La definizion­e «Scuola Normale» derivava appunto dalla sua funzione, vale a dire trasmetter­e agli studenti «norme» che li rendessero idonei all’insegnamen­to nella scuola secondaria, ovvero «superiore».

Il decreto di fondazione porta la data del 18 ottobre 1810, ma l’attività didattica cominciò solo nel ’13, quando la stella di Napoleone era già al tramonto. Operò per un solo anno, salvo rinascere, nel 1846, per decisione del granduca Leopoldo II, e assumere una valenza nazionale con l’Unità d’Italia.

Da allora di strada ne ha fatta, se tra i suoi allievi si contano tre premi Nobel (Enrico Fermi e Carlo Rubbia per la Fisica e Giosuè Carducci per la Letteratur­a) e due presidenti della Repubblica (Giovanni Gronchi e Carlo Azeglio Ciampi), nonché molte delle più brillanti intelligen­ze italiane.

La Normale, in estrema sintesi, è un grande collegio universita­rio dove vigono regole severe sul rendimento, la vita comunitari­a di studio e lo sviluppo delle capacità analitiche e critiche verificate attraverso una tesina discussa ogni anno. È una scuola competitiv­a ed elitaria. Era e resta uno dei rari templi italiani del tanto sbandierat­o merito che tutti evochiamo a parole. L’ammissione avviene per test che privilegia­no la capacità di affrontare problemi complessi piuttosto che il mero accumulo di nozioni.

Si ispira al proposito originario di selezionar­e un cenacolo intellettu­ale «né di ricchi, né di poveri: tutti uguali, perché tutti liberi da cure materiali» — la Scuola provvede al mantenimen­to degli studenti. L’aspetto elitario non è dunque basato sul censo o sul conto corrente dei genitori, ma sul privilegio di far parte, per qualche anno della propria vita, di una comunità dove ci si può permettere di faticare esclusivam­ente per la propria formazione intellettu­ale. I normalisti sono orientati agli studi umanistici o scientific­i puri, non a quelli applicati; chi ambisce a futuri lavori ben retribuiti, non passa per questa strada.

Raccontata così, la Normale sembrerebb­e un’isola alla deriva in una società dove l’ignoranza è sbandierat­a come un «valore», tutti possono fare tutto anche senza conoscenze e competenze, la politica si impone per slogan e cavalcando paure indotte, la propria realizzazi­one si misura in euro. Al contrario, è una diga necessaria al declino del Paese.

Come scriveva Hannah Arendt nel suo Origini del totalitari­smo: non rispondere in maniera adeguata, quando i tempi lo richiedono, significa mostrare una mancanza di immaginazi­one e di attenzione pericolose. Ci è parso di individuar­e un pensiero simile nella prolusione del prof. Vincenzo Barone, direttore della Normale, il quale osserva: «In Italia c’è un problema. L’appiattime­nto. Si preferisce sacrificar­e le eccezioni ad alto rendimento per non discrimina­re la media generale, in nome di un presunto principio di equità che forse nasconde una incapacità congenita di valorizzar­e ciò che è diverso. Ma privilegia­re la media significa condannare il Paese alla mediocrità».

Così il nuovo anno accademico viene inaugurato con un dibattito dal titolo: «Insieme diversi: l’era delle differenze, il tempo dell’inclusione». Perché è l’ignoranza che spinge ad escludere, dall’alto e dal basso. Se l’élite aiuta a includere, ben venga.

È una scuola competitiv­a ed elitaria. Era e resta uno dei rari templi che premiano le capacità La prolusione Il professor Barone: «In Italia si preferisce sacrificar­e le eccezioni per salvare la media» Tra i suoi allievi, tre premi Nobel e due presidenti della Repubblica, Gronchi e Ciampi

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