Corriere della Sera

I DIVORZI «STRANIERI»

La richiesta al giudice per poter ripudiare la moglie o il ricorso sulla validità di nozze in videoconfe­renza Ecco cosa succede nelle aule di tribunale italiane quando si applica il diritto di famiglia di altri Paesi

- di Giusi Fasano

C’è il tizio che per sua moglie avrebbe tanto voluto il Talq, il ripudio, secondo i vecchi precetti della sharia. C’è la coppia che ha chiesto al tribunale civile di applicare la Kafala prevista dalla legge islamica. C’è la moglie che invece ha ottenuto il Mout’a, dono di consolazio­ne, e l’Iddà, indennizzo per la «vedovanza» post-divorzio, stabiliti dal codice di famiglia marocchino, il Mudawwana Al’Usra. Un giudice ha dovuto decidere se fosse valido o no un matrimonio celebrato in videoconfe­renza fra l’Italia e il Pakistan, altri si sono pronunciat­i su nozze decise per gioco a Las Vegas ma diventate reali quando poi uno dei due partner le ha registrate.

La legge del 1995

Paese che vai, divorzio che trovi. Ma la domanda è: quando e come — in caso di coppie miste o di coniugi entrambi stranieri — i giudici italiani tengono conto del diritto di altri Paesi nel decidere le loro sentenze di divorzio? La risposta segue percorsi complicati­ssimi partiti da una legge del 1995 — la 218 che disciplina­va il diritto internazio­nale privato — e approdati a più regolament­i europei che sono un’evoluzione di quella legge (in particolar­e il nr. 1259 del 2010, applicato dal 2012 in poi).

In materia di divorzio un punto fermo importanti­ssimo dal quale partono i tribunali civili italiani è che i giudici debbano rifiutare di applicare una legge contraria all’ordine pubblico: che contrasti, cioè, con i valori fondamenta­li della società civile o non tenga conto della parità di diritti dei coniugi. Per questo nel tempo sono stati respinti vari tentativi di introdurre in Italia il concetto islamico del ripudio. Non è accettabil­e un marito che dica a un giudice italiano: l’ho ripudiata quindi non le pago gli alimenti, nemmeno se lei accetta quell’accordo.

Altro principio chiave: il regolament­o europeo attivo dal 2012 non ha i confini dell’Europa. È universale, quindi non vale soltanto per gli Stati Ue ma è applicabil­e a qualunque legge straniera purché il giudice sia di uno Stato che aderisce al regolament­o.

Giuseppe Buffone, ex giudice civile a Milano e ora alla Direzione generale della giustizia civile, dice che «purtroppo non sono molti i magistrati e gli avvocati che si muovono con disinvoltu­ra fra le norme che regolano questo genere di questioni. Così capita che molte volte la coppia non sia informata, e ne avrebbe diritto, sulle possibilit­à che renderebbe­ro tutto più semplice e veloce. Mi è capitato di sentirmi dire che il regolament­o europeo fosse escluso perché lui era ecuadorian­o, lei cilena. Sbagliato: devi chiederti di che nazionalit­à è il giudice, non loro». È fondamenta­le sapere che, quando sono d’accordo, i divorziand­i possono scegliere la legge da applicare e magari rivolgersi allo Stato che prevede il divorzio diretto senza passare dalla separazion­e. È di questo genere l’ultimo caso registrato dalle cronache, a Padova.

Applicato il codice marocchino

Le avvocatess­e Ghita Marziano e Barbara Gerardo hanno ottenuto il divorzio immediato per i loro assistiti — lui marocchino, lei italiana di origini marocchine — chiedendo al giudice l’applicazio­ne del codice di famiglia del Marocco che lo prevede. Ma più del divorzio immediato la novità di quella sentenza è stata l’applicazio­ne della legge marocchina anche ai rapporti patrimonia­li. La moglie si è vista riconoscer­e il Mout’a (dono di consolazio­ne stabilito in base alla durata del matrimonio e alla situazione finanziari­a del coniuge) e il Sadaq, la dote nuziale che l’uomo (secondo i riti del suo Paese) si era impegnato a pagare per poterla spo- sare. L’avvocatess­a Marziano ha studiato il Mudawwana Al’Usra e dice che con quel codice «il legislator­e marocchino si è sforzato di conciliare il diritto positivo con quello musulmano che prevede come ancora possibili, a certe condizioni, il ripudio e la poligamia. Due concetti — chiarisce — che non esistono e non possono entrare nel nostro sistema giudiziari­o anche se mi sono capitati casi in cui la contropart­e ha provato invano a farli riconoscer­e come validi».

I ricorsi in Europa

A parte la certezza su termini come poligamia e ripudio, le regole del gioco non devono essere poi così chiare se capita che di tanto in tanto i divorzi arrivino fino alla Corte di Giustizia europea. Per esempio è pendente il caso di una causa di separazion­e aperta in Italia alla quale è seguita una causa di divorzio aperta successiva­mente da uno dei due partner in Romania. Qual è il giudice che «vince», diciamo così? Di norma quello arrivato per secondo dovrebbe sospendere il procedimen­to e invece stavolta non è successo e il magistrato romeno ha concesso il divorzio facendo così cessare la separazion­e in Italia. Un errore? O l’oggetto in discussion­e è diverso quindi è tutto corretto? La questione è aperta e i nodi non saranno sciolti in fretta.

È stato piuttosto complicato venire a capo anche di un’altra storia singolare. Distretto giudiziari­o di Bologna. Lei italiana, lui pachistano. Si sono sposati in videoconfe­renza senza essersi mai conosciuti di persona, come consentono le leggi del Pakistan, ma poi è arrivato il tempo dell’addio, in Italia. La causa, fra ricorsi e controrico­rsi, è approdata in Cassazione. Risultato: il matrimonio era valido perché non in contrasto con i nostri valori fondamenta­li. Come non lo era in un’altra vicenda (e anche in quel caso c’è voluto l’intervento delle Sezioni unite) l’applicazio­ne della kafala, la regola che in alcuni Paesi islamici stabilisce che, in accordo fra loro, i genitori separandos­i possono affidare un figlio che viva laggiù a parenti o amici.

Di recente a Padova un marito marocchino ha pagato il «dono di consolazio­ne» alla donna da cui si è diviso

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