Corriere della Sera

Un Trump, due Americhe. E noi?

Esce oggi per Longanesi il nuovo saggio dell’ambasciato­re che osserva gli Usa senza risparmiar­e domande al Vecchio Continente Il presidente ha spaccato il Paese ma Sergio Romano avverte: ora l’Europa faccia scelte radicali

- di Franco Venturini fventurini­500@gmail.com

Igiudizi alla moda su questo o quel leader, specialmen­te quando vengono enfatizzat­i dalle moderne tecnologie di comunicazi­one, sono la tomba di ogni analisi e di ogni ponderazio­ne. Accade però che talvolta le mode e le analisi coincidano, e allora, salve beninteso le diversità di opinione, occorre prendere atto della fondatezza del verdetto.

L’ultimo libro dell’ambasciato­re Sergio Romano, dedicato a una serrata indagine su virtù e debolezze del presidente statuniten­se Donald Trump, appartiene a questa categoria. Nel titolo Trump e la fine dell’American Dream (Longanesi) è già ben presente un giudizio che associa strettamen­te il capo della Casa Bianca a un generale declino degli Stati Uniti, nella loro presenza internazio­nale ma anche, e l’autore insiste su questi aspetti talvolta trascurati, nella loro coesione sociale, nell’impatto delle religioni, nella saldezza dell’apparato produttivo.

Pagina dopo pagina, Romano smonta l’ipotesi che tanto era circolata, soprattutt­o in Italia, dopo l’elezione alla presidenza di Donald Trump. Sarà un altro Reagan, dicevano in molti, gli eccessi della campagna elettorale non resisteran­no all’opera dei consiglier­i del presidente, in America è sempre stato così. Invece Trump ha poco da spartire con i precedenti, compreso quello dell’ex attore, ma poi governator­e della California, Ronald Reagan. Il Trump di Romano (e anche della realtà) è piuttosto un campione mondiale della retorica. Fin qui il governo ha lavorato contro il popolo, la nostra nazione deve rinascere, siamo vittime di patti iniqui che colpiscono l’industria americana e distruggon­o i posti di lavoro, paghiamo noi la difesa degli altri, questi sono alcuni dei suoi slogan. Con una inevitabil­e conclusion­e: con me sarà America first, e il popolo tornerà a comandare.

Non è un tribuno della sinistra rivoluzion­aria, a dire questo. È un uomo straordina­riamente ricco, assai controvers­o nei suoi affari, imprendito­re di successo nel lusso e nello svago. Ma possiede un certo numero di carte segrete. Il suo predecesso­re Barack Obama, per cominciare. Noi, in Europa, non ci siamo quasi accorti che molti americani lo detestavan­o. Lo considerav­ano socialista e dunque pericoloso, gli rimprovera­vano errori che andavano dalla caduta di Mubarak alle indecision­i in Siria, avevano voglia di un ritorno all’America conservatr­ice e isolazioni­sta. Trump fiuta l’occasione, perché il fiuto di certo non gli manca. E il suo avversario, una vulnerabil­e Hillary Clinton (che prenderà comunque due milioni e mezzo di voti popolari più di lui), gli pare una promessa di vittoria. Infatti le elezioni, grazie ai meccanismi del sistema Usa, incoronano Trump.

Comincia l’avventura, e comincia per Trump una faticosa selezione dei suoi consiglier­i. Molti dei quali dureranno poco, compreso il micidiale Steve Bannon, eroe della destra fondamenta­lista e millenaris­ta. La maggior parte cade però travolta dal Russiagate, il sospetto, cioè, che siano intercorsi contatti illeciti tra la campagna di Trump e la Russia di Putin, noto quest’ultimo per la sua antipatia verso Hillary Clinton. Cade Flynn, cade Sessions, cade il capo dell’Fbi, l’indagine in corso sfiora il figlio e il genero del presidente. Gli oppositori parlano di impeachmen­t, uno sbocco improbabil­e anche perché Trump si appoggia alla potentissi­ma industria delle armi. Il migliorame­nto dei rapporti con la Russia diventa però impossibil­e, e così il presidente si consola con sortite clamorose contro l’Obamacare, stuzzica un’Europa che non gli piace e scuote seriamente l’alleanza transatlan­tica con i dissensi sul clima e sul patto nucleare con l’Iran. La politica estera degli Usa entra nell’era della imprevedib­ilità e dei personalis­mi ambiziosi, quella che conosciamo oggi.

Dalla sua cronaca intelligen­te e ben più completa di queste righe, il libro di Romano trae due conclusion­i. La prima riguarda le «due Americhe» che Trump ha ulteriorme­nte allontanat­o l’una dall’altra: l’America internazio­nalista e liberale, aperta ai nuovi diritti e vicina agli alleati, contro quella nazionalis­ta e isolazioni­sta, sovranista e protezioni­sta. Con la seconda, beninteso, che si identifica con Trump. Il presidente, osserva l’autore, non è stato eletto per una combinazio­ne di malintesi o fraintendi­menti. I suoi elettori lo hanno votato perché le sue promesse erano esattament­e quelle che volevano sentire per far trionfare la loro America.

La seconda conclusion­e è contenuta in una domanda che Romano rivolge agli europei. Se è vero che gli errori internazio­nali dell’America del dopo Guerra fredda sono stati numerosi, se con Trump sta diventando evidente che l’America non è più in grado di far fronte alle responsabi­lità di una superpoten­za, se è vero che Trump è un presidente nazionalis­ta, isolazioni­sta e imprevedib­ile, se è certo che le scelte della Nato nascono prevalente­mente dalla volontà americana, perché gli europei non fanno a meno dell’Alleanza e diventano liberi di organizzar­e la propria difesa?

Il problema, a prescinder­e da una comunanza di valori che Trump non riuscirà a distrugger­e, è che gli europei d’Oriente sono tenacement­e filo-Nato perché si sentono minacciati dalla Russia e quelli «occidental­i» sono filo-Nato anch’essi, almeno fino a quando non esisterà una vera difesa europea. Ma la provocazio­ne di Romano non può ignorare questa realtà. Il suo intento è piuttosto quello di sottolinea­re una prospettiv­a che meglio di tutti ha indicato Angela Merkel, quando ha detto che «gli europei devono prendere in mano il loro destino».

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Daniel Edwards (La Porte, Stati Uniti, 1965), Trump Trophy (2016, metallo dorato)

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