COME CAMBIA IL BENE COMUNE
L’appuntamento Domani a Imola il primo Festival di Pubblica Utilità mette in luce le esperienze basate sul valore condiviso. L’impegno dei cittadini in relazione al proprio territorio sarà una leva essenziale per l’innovazione sociale RIPENSIAMO LA SOCIET
Al livello di sviluppo a cui siamo arrivati, occorre riflettere anche su quali possano essere i nuovi beni in grado di aprire nuovi spazi economici per il nostro futuro. Nell’epoca dello scambio finanziario-consumerista, a dominare è stato un individualismo sempre più spinto. L’idea centrale è stata quella di stimolare il desiderio individuale oggettificandolo in beni ed esperienze di consumo. Certamente, questo meccanismo continuerà a operare anche in futuro: non c’è da dubitare che i consumi individuali siano destinati a rimanere una parte importante della domanda ancora per molti anni.
Ma, allo stadio di sviluppo in cui siamo, si può forse pensare realisticamente che il consumo individuale sia la molla della crescita in una società invecchiata, con almeno mezzo secolo di benessere alle spalle? È vero che viviamo più a lungo e in condizioni migliori di salute. Ma rimane il fatto che, per quanto stimolata, una persona di sessant’anni non consumerà mai come una di trenta. Uscire dalla crisi allora, oggi come sempre, richiede di cambiare paradigma. Serve uno sforzo di creatività per rispondere alla domanda: quali saranno i nuovi beni capaci di creare nuove possibilità economiche e insieme far crescere il livello di soddisfazione personale e sociale? Cioè, attorno a quali nuove dimensioni di valore si potrà organizzare il prossimo ciclo di sviluppo capitalistico?
I settori da ripensare in questa prospettiva sono molteplici: dalla mobilità alla formazione, dal welfare alla casa. Tutti ambiti in cui il tema del «valore condiviso» di cui parla M. Porter è centrale. Nell’economia di domani, ciò che sta tra lo Stato e il mercato è destinato a divenire una componente decisiva per gli equilibri economici complessivi. Beninteso, complementare, e non sostitutiva, rispetto a quelle canoniche: mercato individuale, spesa pubblica, export.
Per compiere tale passaggio è dunque necessario un salto culturale. Ciò che sta in mezzo tra Stato e mercato, infatti, non coincide con quello che in questi trent’anni abbiamo chiamato «terzo settore», in larga parte ridotto a fornitore a basso costo di servizi in conto terzi (lo Stato). È molto di più. Ed è molto più dinamico e strategico: sarà infatti proprio questo l’ambito principale per la sperimentazione e l’innovazione, dove i nuovi consumatori e i nuovi beni potranno far nascere, in forme che oggi non riusciamo nemmeno a immaginare, le cose più interessanti del mondo che ci aspetta. In questo spazio del «valore contestuale» potranno proliferare forme ibride tra ciò che nel corso del tempo abbiamo rigorosamente separato: il consumo con la socialità, la produzione con la partecipazione, l’impresa con i problemi sociali, la rete con i nuovi bisogni, il welfare con la relazione, la dimensione pubblica con l’autorganizzazione sociale.
All’interno di questo nuovo paradigma bisogna ripensare quindi l’idea di beni pubblici, intendendo la parola «pubblico» non come un sinonimo di statale, ma come bene relazionale e/o condiviso che ha sencollaborare so e si valorizza proprio in quanto riferibile a una comunità (sia essa un territorio, una associazione, una impresa, etc.). E in questo senso è l’opposto di quello che troppo spesso, in Italia, è stato chiamato bene statale, ovvero un bene che non è di nessuno, di cui nessuno in realtà deve prendersi cura, perché tanto «ci pensa lo Stato». D’altro canto, è chiaro che privatizzare, come statalizzare, vuol dire togliere un bene alla comunità. L’unica soluzione ai problemi che ci troviamo ogni giorno ad affrontare è immaginare una terza via tra pubblico e privato, cominciando di nuovo a pensare un orizzonte economico in cui attorno a un bene si possa riorganizzare il legame sociale. Il bene di comunità è un bene che può esistere e generare valore, ed essere valorizzato a sua volta, soltanto se tutti quelli che sono interessati, se ne occupano.
È questo il passaggio successivo al concetto di «bene comune», che altrimenti rischia di restare una bella formula senza contenuto. Poiché non è possibile che un cittadino si occupi di tutti i beni comuni di un’intera nazione, è ragionevole supporre che ciascuno sia interessato al territorio in cui si trova, in cui abita e per cui ha un interesse particolare: non c’è un bene comune del quale possiamo assumerci la gestione o a essere se non c’è una relazione anche fisica. Non stiamo parlando solo del grande museo, ma anche del parco cittadino, della biblioteca, dell’ospedale. Di tutti quegli ambiti nei quali si può esercitare una cittadinanza attiva e imprenditrice in un’ottica di strutturare e consolidare il ben vivere. Visti in questo orizzonte, questa nuova tipologia di beni ha tutte le caratteristiche per diventare una delle leve essenziali per l’innovazione sociale dei prossimi anni, un ambito decisivo per la produzione di nuovo valore, luogo di uno scambio positivo tra l’individuo e il suo contesto sociale, snodo di un rinnovato patto sociale intergenerazionale e di una logica economica che fa i conti con la sostenibilità. E non basteranno le pur importanti riforme legislative. Sarà necessario accompagnare e sostenere nuove «esperienze istituenti», capaci di sperimentare nuove declinazioni di attenzioni antiche (quali la mutualità e la solidarietà) e al contempo di tenere insieme ritorno economico, offerta di prestazioni e legami sociali.
Testo tratto da «Cambio di paradigma. Uscire dalla crisi pensando il futuro», il nuovo libro di Mauro Magatti, edito
da Feltrinelli
Molto di più del terzo settore, in larga parte fornitore a basso costo di servizi in conto terzi
Siamo all’opposto di quello che in Italia viene detto bene statale, cioè di nessuno