«Lavoro spesso in altri Paesi ma è l’Italia a darmi l’identità»
Il vincitore della scorsa edizione del Premio Cairo discute i temi del nostro inserto sull’arte
Paolo Bini è un giovane uomo di 33 anni, vive a Battipaglia (Salerno) e si definisce «un pittore». Sì, nell’accezione più antica: cita le Veneri di Tiziano e spiega che i suoi lavori, anche quelli fatti di nastri di carta colorati (dipinti singolarmente e poi applicati su supporti differenti) nascono da un doppio piano di memoria: «I paesaggi italiani che vedevo sfrecciare dal finestrino da bambino, nelle gite con la famiglia; e poi tutti gli affreschi che i miei mi portavano a vedere».
Uno di questi lavori, dal titolo I luoghi del sé, l’anno scorso ha convinto la giuria del 17esimo Premio Cairo, facendo guadagnare a Bini il primo posto nel concorso (curato dalla Redazione di Arte, mensile dell’Editoriale Giorgio Mondadori-Cairo Editore) che dal 2000 premia opere inedite di giovani artisti. Lunedì, il Palazzo Reale di Milano ospiterà la cerimonia di premiazione dell’edizione 2017 e, dal giorno successivo, la mostra con i lavori selezionati.
Domani, poi, in allegato al «Corriere della Sera» in edicola ci sarà un supplemento dedicato all’arte nel quale si fa il punto sul settore oggi in Italia, dalle gallerie alle iniziative per promuovere il contemporaneo. E così abbiamo scelto di affrontare questi temi insieme a Paolo Bini, che lunedì cederà il titolo di vincitore.
Bini, la scelta della pittura e per di più dell’astratto non è la più frequente tra i giovani della sua età.
«In realtà sperimento anche altre tecniche, però è nella pittura e in questi paesaggi interiori che ritrovo il mio linguaggio. Sono frammenti di vita trascorsa in Italia o in Grecia. Ma sono anche il portato di una identità sottile, la chiamerei — senza retorica — italianità, che all’estero spicca e che ci rende molto apprezzati».
Molti critici accusano il nostro Paese di impegnarsi tanto a decantare il ricco patrimonio dell’antico a discapito di un serio investimento sul presente, cioè sui giovani artisti. Lei è d’accordo?
«Sì ma credo che molti di noi abbiano raggiunto una sorta di compromesso: non lasciamo l’Italia ma lavoriamo molto all’estero. Io sento di aver bisogno di vivere qui, di assorbire certe cose. E non è casuale che poi, in altri Paesi, questa identità risulti convincente. Per esempio, quando sono andato per la prima volta a Cape Town (Bini lavora molto in Sudafrica, ndr) in una selezione scelsero il mio lavoro perché, cito, “aveva un linguaggio universale”. Trovo che ultimamente l’attenzione nei confronti del contemporaneo ci sia, anche se l’arte riflette i problemi del Paese, sociali, economici e culturali, ovvio».
Un altro dei dibattiti accesi nel nostro inserto di venerdì è la contrapposizione «mostre di ricerca/mostre popolari».
«Ma si possono fare mostre di ricerca con un rigore mitigato dalla scelta di opere diverse. Il progetto curatoriale è fondamentale: plasma lo sguardo del pubblico, lo educa. Penso al Padiglione Italia curato da Cecilia Alemani nella Biennale di Venezia ancora in corso: lei ha scelto tre artisti, ma straordinari. Ha tracciato una linea, l’ho trovata una mossa forte. Così come mi era piaciuto, per motivi diversi, lo sguardo di Vincenzo Trione, nella scorsa edizione».
È cambiata la sua carriera dopo il Premio Cairo?
«È cresciuta. C’è più attenzione da parte di gallerie e di collezionisti. Il segreto però rimane quello di insistere, mantenere una identità molto forte e adattarsi. Io per esempio firmo anche scenografie di film, insomma spazio in vari ambiti. È un modo di maturare».
È cambiata la sua ricerca?
«Nei lavori che sto affrontando ho un obiettivo: trovare una natura perfetta che arrivi, in qualche modo, a sopraffare la pittura. Io posso dirmi soddisfatto: c’è un modo di dire che gira nel nostro mondo, sa qual è?».
Qual è?
(ride) «Chi ce la fa in Italia ce la fa dappertutto!»
Tanti miei coetanei non se ne vanno all’estero, ma provano a costruire qui una riconoscibilità