Corriere della Sera

La favola nera di Kristóf è come un urlo dall’esilio

- di Franco Cordelli

Per i Quartieri dell’Arte siamo a Viterbo, la città più medievale d’Italia: un labirinto. Per fortuna avremo una guida. Ancora più medievale ci appare il Mat. Cosa sia il Mat non so. A me sembra un cunicolo che termina in uno spazio più grande, come fosse una grotta — divisa in due parti: si ci siede su gradini antichi. Di fronte, una cornicefra­me ritaglia lo spazio scenico. Quando si fa buio, una fitta nebbia lo avvolge e quando la nebbia si dirada (un poco) vediamo una donna, che ci da le spalle. È vestita di bianco, una capigliatu­ra albina le scende fino ai fianchi.

Lo spettacolo è La chiave dell’ascensore, prodotto da Florian-Artefatti; l’ungherese Ágota Kristóf lo scrisse in francese nel 1977 in Svizzera, dove era fuggita nel 1956, a ventuno anni. Noi crediamo, mentre si volta, che il suo personaggi­o stia parlando di come vive, con quel marito tirannico e stupido, con quel suo principe che le ha tolto le chiavi dell’ascensore del castello in cui dimora, poi con iniezioni indolori le ha tolto la possibilit­à di uscire nel bosco per una passeggiat­a, e poi le ha tolto l’udito e più tardi la vista; e infine vediamo come la ribellione arrivi solo nel momento in cui l’uomo tanto amato vorrebbe toglierle la voce.

Noi vediamo e crediamo, dicevo, che la donna ci stia parlando della sua schiavitù coniugale, nata come fosse in un paradiso — fino al punto che ci aveva accolto cominciand­o con la storia (la fiaba) di una castellana infelice, poiché abbandonat­a, mentre lei la fortuna che il marito la sera a casa tornava, quella fortuna l’aveva. Noi a tutto questo dapprima abbiamo creduto.

Poco a poco cominciamm­o però a capire che se una fiaba è narrata nella commedia, tutta la commedia lo è, una fiaba nera — e non già una fiaba su come era la vita in Ungheria prima che Stalin morisse, e anche dopo; ma come era la vita nella Svizzera dell’esilio, dove la commedia fu scritta. Dal racconto autobiogra­fico del 2004 L’analfabeta, Kristóf scrive: «Nella fabbrica tutti ci trattano bene. Ci sorridono, ci parlano. Ma è qui che comincia il deserto. All’esaltazion­e dei giorni della fuga subentra il silenzio, il vuoto, la nostalgia».

Non è forse, con parole diverse, ciò di cui parlava la donna della commedia? Ma è stupefacen­te l’analogia tra la commedia che abbiamo letto e quanto ascoltiamo nella misura in cui ne è stupefacen­te la differenza — per la ricchezza e lancinante potenza dei toni e per gli effetti e suggestion­i di luce.

Il regista Fabrizio Arcuri e l’interprete Anna Paola Vellaccio avevano già lavorato insieme. L’accordo è misterioso, sono un tutt’uno. In un monologo, Nella pietra di Christa Wolf e diretta da Enrico Frattaroli, Vellaccio aveva mantenuto un timbro vocale e ritmico per tutto il tempo. Ora, che siamo in un altro medioevo, nel medioevo eterno, il tempo viene frantumato: la vera fiaba in quella nebbia è straniata; l’altra fiaba è invece ironica, ora irrisa, ora appassiona­ta, ora urlata — un interminab­ile urlo doloroso: «La vita, se volete, ma non la voce!».

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Straziata Anna Paolo Vellaccio è l’interprete del dramma diretto da Fabrizio Arcuri «La chiave dell’ascensore»

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