Corriere della Sera

Vivere fino a 120 anni ? Si può. E in buona forma

Con l’età si diventa più vulnerabil­i, ma la fragilità non è un destino ineluttabi­le che ci attende una volta superata la soglia dei 60. Anzi, secondo gli ultimi studi, il declino legato al tempo che passa è uno stereotipo da superare. L’invecchiam­ento att

- Elena Meli

Nel mondo iper-efficiente e accelerato di oggi chi resta indietro è fuori dai giochi: la fragilità, di qualunque natura, non è prevista e spesso viene tollerata a fatica.

Vale anche per gli anziani, una fetta sempre più ampia di popolazion­e (siamo a oltre il 22 per cento del totale e in continua crescita): con l’età si diventa più fragili e per questo si viene sospinti ai margini della società e della vita.

Ma la fragilità non è un destino che ci attende invariabil­mente allo scoccare dei 65 anni. Lo sottolinea con forza una revisione degli studi sull’argomento pubblicata di recente su Frontiers in Physiology, secondo cui bisogna superare lo stereotipo che vede l’anziano inesorabil­mente avviato su una china discendent­e.

Con un corretto stile di vita, il tanto agognato “invecchiam­ento attivo”, il momento in cui si dovrà affrontare il declino può essere infatti posticipat­o, e parecchio.

«Meglio essere chiari, l’elisir di lunga vita non esiste. Invecchiar­e in buona salute però è possibile, ritardando al massimo la comparsa della fragilità, che è sinonimo di vulnerabil­ità — spiega Nicola Ferrara, presidente della Società Italiana di Gerontolog­ia e Geriatria (Sigg) —. Un anziano fragile

La «ricetta» antideclin­o? Una buona vita sociale per stimolare il cervello, una dieta che non sia troppo abbondante né carente di nutrienti per mantenere il peso forma, un’attività fisica regolare adeguata alle proprie condizioni di salute

Processo silenzioso Il decadiment­o è una china scivolosa su cui ci si avvia un passo alla volta, senza la grancassa di esami alterati o malattie che impongono terapie

non ha acciacchi evidenti, ma vive in equilibrio precario perché la sua funzionali­tà si è pian piano deteriorat­a: un evento acuto come una frattura, una polmonite, un lutto possono alterare la situazione in maniera irreversib­ile, facendo precipitar­e le condizioni di salute».

La fragilità è perciò una strada scivolosa su cui ci si avvia un passo alla volta, silenziosa­mente, senza la grancassa di esami sballati o malattie che impongono terapie: quasi senza accorgerse­ne il pensiero si fa meno lucido, il passo è meno fermo, i movimenti rallentano, i muscoli si indebolisc­ono.

Nulla di eclatante, ma in questo processo ci si sposta sempre più vicino all’orlo di un precipizio: da lì basta una piccola spinta per perdere il benessere. La vulnerabil­ità si può però misurare, per capire quanti passi ci dividono da questo confine.

«Si diventa fragili per un’involuzion­e dell’organismo che si manifesta con alterazion­i nei livelli di alcune molecole pro-infiammato­rie e ormoni, ma soprattutt­o con un cambiament­o nella capacità di muoversi, ancora più semplice da valutare — interviene Niccolò Marchionni, vicepresid­ente della Società Italiana di Cardiologi­a Geriatrica —. Se un anziano ha difficoltà a stare in equilibrio in condizioni particolar­i, per esempio con un piede davanti all’altro, se non riesce ad alzarsi facilmente da una sedia senza usare un sostegno, se il passo è rallentato a meno di un metro al secondo, in due casi su tre perderà l’autonomia entro i quattro anni successivi.

«In particolar­e, camminare bene è un fattore essenziale per capire il grado di vulnerabil­ità perché è un’azione che dipende molto dalla salute neuromusco­lare generale: non ci si riesce quando il coordiname­nto motorio peggiora, come accade in concomitan­za con il declino cognitivo; non ci si riesce quando c’è un’infiammazi­one generalizz­ata di basso grado, molto dannosa per gli organi, come nel caso dell’obesità sarcopenic­a in cui i muscoli sono infiltrati di grasso e non più funzionali».

La buona notizia è che il momento in cui si diventa vulnerabil­i non è scritto nei geni, può essere allontanat­o nel tempo e la ricetta per riuscirci è tutto sommato semplice: una buona vita sociale per stimolare il cervello, una dieta adeguata che non sia troppo abbondante, né carente di nutrienti per mantenere il peso forma, un’attività fisica regolare adeguata alle proprie condi- zioni di salute (si veda l’articolo a lato). L’obiettivo è restituire vita agli anni, evitando che la maggiore aspettativ­a di sopravvive­nza si trasformi in una dilatazion­e del tempo trascorso alle prese con malattie e sofferenze. «L’assunto pare incontrove­rtibile: vivere di più significa vivere più a lungo con disabilità. E in linea generale è vero, ma i dati raccolti in diversi Paesi europei mostrano chiarament­e che c’è margine per l’eccezione — dice Marchionni —. Italia e Spagna, per esempio, si discostano dalla regola: l’aspettativ­a di vita è elevata, ma gli anni con disabilità sono inferiori rispetto all’atteso. Il contrario vale per l’Islanda o la Finlandia, dove si campa a lungo ma peggio. Non è un caso: Italia e Spagna sono i Paesi con il più elevato consumo di frutta e verdura, l’alimentazi­one comune in Islanda e la Finlandia invece è ben lontana dalla dieta mediterran­ea. Ciò dimostra che con lo stile di vita possiamo davvero stare bene più a lungo».

Va detto che non diventerem­o tutti Matusalemm­e: prevenire la fragilità non sposta il limite massimo della vita, che pare fissato in via definitiva attorno ai 120 anni. «Significa però poter diventare “grandi vecchi” in buona forma fisica e autonomia — dice Marchionni —. Succede sempre più spesso: negli ultimi dieci anni i centenari sono cresciuti del 300 per cento, oggi in Italia sono circa 17mila». E tanti sono arzilli, energici vecchietti.

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