La rivincita della «Liga»
LA STORIA I PARTITI «FRATELLI»
«Né con Roma, né con Milano!», diceva uno striscione alla «Festa dei Veneti» indetta una decina di anni fa dalla associazione «Raixe Venete», cioè radici venete, nata «co l’intento de tegner viva la identità…». Va da sé che l’altra sera, davanti alla schiacciante superiorità percentuale dei veneti sui lombardi al referendum per l’autonomia, non c’è leghista da Peschiera a Bibione che non abbia fatto l’occhiolino al vicino: «Tò!».
I rapporti
Per carità, Roberto Maroni si è precipitato a precisare subito che «non c’era nessuna gara con Luca Zaia». E il governatore veneto è andato più in là dicendo che non si è trattato d’una vittoria del «Leon che magna el teròn» e meno ancora del Carroccio: «Questa elezione dimostra che non esiste il “partito dell’autonomia”, esistono i veneti che si esprimono a favore di questo concetto». Scelta che fa dire a Bepi Covre, a lungo parlamentare leghista poi espulso («solo dai trevisani») che «il giovanotto è cresciuto. Molto. Ha imparato a muoversi con intelligenza. Per questo deve restare qua. Guai se dovesse ascoltare certe sirene romane. Col referendum abbiamo fatto lo zaino con la borraccia, i panini, la corda e tutto quel che serve per scalare la montagna. La scalata, però, deve ancora iniziare. E sarà durissima».
Certo è che da anni e anni i leghisti veneti soffrivano verso gli amici lombardi di una sorta di sudditanza venuta meno, probabilmente, solo ieri. Sudditanza sfociata non di rado in malumori sotterranei e aperte contestazioni. Basti ricordare l’«era berlusconiana» della legislatura trionfalmente iniziata nel 2001. Lombardo era il segretario del partito e ministro per le riforme Umberto Bossi (come il suo successore Roberto Calderoli), lombardo il ministro della giustizia Roberto Castelli, lombardo il ministro del lavoro Roberto Maroni, lombardo il capogruppo alla Camera Andrea Gibelli, lombardo il primo e il terzo dei capigruppi al Senato Castelli e Pirovano, lombardi tre su quattro degli europarlamentari a Bruxelles, lombardo il direttore del quotidiano la Padania, lombardo il direttore di Radio Padania Libera e via così. Per non dire dei segretari: il «quasi a vita» Umberto Bossi, Roberto Maroni e Matteo Salvini. Tutti e tre, ovvio, lombardi. Senza che mai sia stata manco ipotizzata una candidatura padovana, veronese o trevisana. Era scontato: il potere era lì, tra Milano e Varese.
Eppure i primi a tirar su la testa autonomista erano stati i veneti. Racconterà mistico Franco Rocchetta: «La prima volta che dissi che volevo fondare la Liga fu il 18 agosto 1968, nella chiesa di Santa Maria di Danzica». Conosceva il polacco? «Neanche una parola». E allora? «Come cominciai a parlare le parole presero a sgorgarmi naturalmente...». Polacchi a parte, i pionieri veneti decisero di dar vita nel lontano dicembre ’79 a un partito che si trattenesse «in difesa della lingua, dei costumi, delle tradizioni venete». Fondato ufficialmente l’anno dopo, in uno studio notarile di Padova.
Primi a metter su la Liga Veneta, primi ad eleggere nel 1983 un deputato e un senatore presto espulsi da Rocchetta («il padre della madre di tutte le leghe») e dalla moglie Marilena Marin, primi a raccogliere nell’87 quasi 300.000 voti mancando il quorum per un soffio, primi ad allearsi con Umberto Bossi e la Lega Lombarda nata nel frattempo per fondare nell’89, dal notaio, la Lega Nord. Dalla quale sarebbero stati poi espulsi lasciando agli archivi parole infuocate: «Riconosco le mie colpe: pensare con la mia testa ed esser coerente coi miei ideali legittimati dal voto popolare in quel Veneto che si ostina a non essere colonia politica dei pretoriani della “Legaboss”». Di più: «Bossi è ormai come Hitler nel bunker con Erminio Boso al posto di Eva Braun. Certo, Erminio non ha la stessa femminilità ma ama il Capo con la stessa “vis amandi”». Arsenico.
Fatto sta che per anni e anni la «Liga» è rimasta fedele al Senatùr, avendone in cambio la parata annuale veneziana in riva degli Schiavoni, lo spostamento del sedicente Parlamento della Padania nella villa vicentina «La Favorita» a Sarego e poco più. Inquieta ma fedele. Nonostante certe battute bossiane di rivendicazione della primogenitura: «L’effetto Lega è ormai uscito definitivamente dalla Lombardia entrando in Piemonte, in Liguria e in Emilia Romagna, con un solo anello debole: il Veneto». Fedele ma inquieta, tanto da spingere nel ’98 allo strappo l’allora segretario veneto Fabrizio Comencini: «Avevamo votato con Giancarlo Galan una risoluzione per l’autonomia del Veneto. Fu letta come una rivolta venetista. Uscì sulla Padania un articolo firmato “Il Capitano” che diceva peste e corna, sostenendo che io non avevo capito che era una manovra di Berlusconi per rompere la Lega». Fu espulso insieme con quattro parlamentari e sette consiglieri regionali.
Un malessere carsico, quello «lighista». Un malessere che per tanto tempo ogni tanto si inabissava e tornava a galla. Come quando una dozzina di anni fa saltò la mosca al naso perfino a Giancarlo Gentilini, l’ex sindaco-sceriffo di Treviso, che finì per sbottare contro i «lumbard» dopo l’ennesima «prepotenza» rovesciando su di loro l’accusa più rovente: «La Lega veneta è sempre forte, forse troppo, e può darsi che questa forza e questo consenso popolare abbiano messo sul chi va là qualche esponente romano della Lega Nord». Peggio: «C’è sempre qualcuno, in questo ambiente, che è pronto a piantarti un coltello nella schiena non appena volti le spalle. E io penso che qualche responsabile della Lega a Roma abbia azionato il coltello». «Più Liga e meno Lega», sarebbe diventato lo slogan di tanti venetisti insofferenti.
E questo, come gli riconoscono anche gli avversari, è forse il vero miracolo compiuto da Luca Zaia forzando sul referendum. Essere riuscito a tenere insieme, al voto di domenica, senza sventolare troppo la bandiera del partito, tante anime diverse. I fedelissimi e gli scontenti, i tiepidi e gli entusiasti e perfino un po’ di espulsi che comunque sono riusciti a ritrovarsi. Oltre a tantissimi che, come dicono i numeri, non sono mai stati leghisti e magari mai lo saranno.
Gli sarebbe andata bene, dirà lui, anche se l’affluenza fosse stata altrettanto massiccia in Lombardia. Il distacco sui lombardi, però, non è solo «lo sfizio» supplementare. C’è di più. Molto di più...
I referendum sono l’antidoto affinché non accada come in Spagna: diciamo sì all’unità ma non siamo statalisti Abbiamo fatto lo zaino con tutto quel che serve per scalare la montagna Ma la scalata non è iniziata La prima volta che dissi che volevo fondare la Liga fu il 18 agosto 1968, nella chiesa di Santa Maria di Danzica Franco Rocchetta Gaetano Quagliariello, Idea Spero in una discussione meno demagogica: serve un moderno regionalismo, lavoriamo per un approccio federalista utile Maurizio Martina, Pd Bepi Covre La Liga è rimasta fedele e inquieta. E spesso sono arrivate le espulsioni dei «ribelli»