Caporetto Fu un momento terribile Ma l’Italia riuscì a reggere
Da oggi in edicola con il quotidiano un libro di Silvia Morosi e Paolo Rastelli sulle cause e le conseguenze della sconfitta subita dal nostro esercito sul fiume Isonzo. Lo storico Gibelli: non vi fu alcuno «sciopero militare», i soldati lottarono ma si a
Èpassato un secolo, ma la disfatta subita dall’esercito italiano il 24 ottobre 1917 è un evento che persiste nella memoria collettiva, come sottolineano Silvia Morosi e Paolo Rastelli nel volume Caporetto, in edicola da oggi con il «Corriere della Sera». Lo ribadisce il professor Antonio Gibelli, autore di vari saggi sul Primo conflitto mondiale, il più recente dei quali è La guerra grande (Laterza, 2014). «I termini esatti di quanto avvenne restano nel vago, ma si ricorda tuttora un’emozione d’intensità straordinaria», dichiara lo studioso al «Corriere».
D’altronde i contorni della sconfitta rimasero oscuri anche cento anni fa, almeno nell’immediato: «Nelle prime due settimane dopo lo sfondamento austro-tedesco — ricorda Gibelli — si diffusero le notizie più contraddittorie, spesso inventate, che filtravano attraverso le maglie della censura e della propaganda. Come scrisse il grande storico francese Marc Bloch proprio riguardo alla Prima guerra mondiale, si pensava che tutto potesse essere vero, tranne le notizie ufficiali. Così all’emozione si aggiunse il mistero. Era chiaro che le nostre forze avevano subito una grave sconfitta, ma non se ne percepì la portata esatta, almeno fino a quando, dopo la ritirata, la linea della resistenza non si attestò sul Piave».
E il nemico venne fermato: «Sì, ma questo — nota Gibelli — non bastò per cancellare l’angoscia provata in quei giorni di panico, anche se poi la guerra terminò con la vittoria dell’Italia. Oggi nella toponomastica Caporetto non esiste più: si trova in Slovenia e si chiama Kobarid, un luogo dove la memoria della battaglia è modesta. Ma nella lingua italiana il nome proprio di quel centro abitato è diventato un sostantivo comune che si usa in modo proverbiale per indicare una vicenda terribile. È stata una Caporetto, si dice quando si verifica un clamoroso fallimento».
Quanto influì il bollettino in cui il comandante supremo, Luigi Cadorna, scaricava la responsabilità della disfatta su alcuni reparti «ritiratisi senza combattere o ignominiosamente arresisi al nemico»? Gibelli non ha dubbi: «Quelle parole ebbero un peso enorme, furono un momento chiave della crisi nazionale, anche se il governo intervenne per censurare e modificare il testo del bollettino. Passò comunque l’idea che i primi responsabili della sconfitta erano i soldati pavidi e poco patriottici, che avevano buttato le armi ed erano scappati, o addirittura avevano tradito. Si confermava così il pregiudizio verso le “classi pericolose”, quelle più umili, sospettate di un disfattismo sconfinante nella sovversione».
C’era qualcosa di vero? «Ben poco. Non vi fu alcuno “sciopero militare”. Le unità militari in prima linea fecero il loro dovere, ma furono travolte da forze nemiche superiori e meglio organizzate. Dopo la rottura del fronte ci furono episodi di dissolvimento dei reparti e fuga disordinata, di sbandamento e anche di saccheggio. Si racconta di cantine dove i soldati foravano le botti per spillare il vino o di negozi svaligiati in un clima carnevalesco. Ma tutto ciò fu una conseguenza, non certo la causa, della rotta di Caporetto».
Tuttavia il bollettino venne creduto: «La voce innescata da Cadorna — ricorda Gibelli — s’inseriva in clima generale di stanchezza per la guerra, se non di ribellione dei soldati, che impauriva molti. In Russia l’esercito era in disfacimento e i bolscevichi si apprestavano a prendere il potere. Cresceva lo spettro rivoluzionario, alimentato dall’esasperazione per un massacro senza fine».
Però Cadorna venne sostituito, l’esercito resse e si avviò un’inchiesta su Caporetto: «Con l’arrivo di Armando Diaz al comando supremo, migliorò il trattamento dei soldati e si presero misure importanti per sollevarne il morale. La commissione d’inchiesta su Caporetto, operativa dal gennaio 1918 alla primavera del 1919, fece un lavoro egregio, raccogliendo documenti e testimonianze in gran quantità. Ne uscì smentita la tesi dello sciopero militare, mentre emersero le responsabilità di alcuni alti ufficiali. Ma l’esito della guerra finì per mettere la sordina all’inchiesta: ad esempio si evitò di criticare Pietro Badoglio per la mancata azione delle sue artiglierie a Caporetto, visto che in seguito era stato il vice di Diaz nei momenti decisivi della resistenza sul Piave e della vittoria».
Poi, aggiunge Gibelli, venne il fascismo: «Quando il generale Angelo Gatti, vicino a Cadorna, gli disse che voleva ricostruire le vicende di Caporetto, Benito Mussolini gli rispose che non era tempo di storia, ma di miti. Il Duce fece cadere nel nulla l’inchiesta e anzi nominò Cadorna maresciallo d’Italia. Il fascismo aveva tutto l’interesse a non fare chiarezza per proiettare sui suoi avversari politici l’immagine del nemico interno, del disfattismo che prima aveva causato la sconfitta di Caporetto e che poi, secondo il mito ulteriore della “vittoria mutilata”, denigrava i combattenti e impediva all’Italia di cogliere i frutti dei suoi sacrifici».
Qui emerge anche l’ambiguità della reazione italiana dopo la disfatta: «Il Paese si mobilitò intorno all’esercito, visto che la guerra da offensiva era diventata difensiva: si trattava di fermare l’invasore. Ma questo slancio patriottico conteneva il germe dei conflitti futuri: le sue energie erano rivolte anche contro coloro che si erano opposti all’intervento nel 1915 ed ora erano accusati di tramare ai danni della nazione».
Giuseppe Prezzolini scrisse che Caporetto aveva giovato all’Italia, rendendola consapevole dei suoi limiti, mentre il troppo facile successo di Vittorio Veneto aveva fomentato illusioni nocive. «È una lettura un po’ autodenigratoria — risponde Gibelli — che non mi sento di avallare. Considero un errore vedere Caporetto come il paradigma e il riassunto della nostra storia. L’Italia liberale dimostrò una notevole capacità di reggere allo sforzo bellico, ben superiore a quella che ebbe il fascismo nella Seconda guerra mondiale. E anche se l’ingresso nel conflitto fu una forzatura e la vittoria fu enfatizzata, non minimizzerei la capacità del Paese di affrontare una prova così ardua».
Una commissione d’inchiesta indagò a fondo sulle ragioni della catastrofe ma il suo lavoro finì per cadere nel nulla