Gli errori dei comandi Le truppe abbandonate
Pur sapendo che il nemico avrebbe attaccato Cadorna sottovalutò gravemente il pericolo
Fu una sconfitta. Anzi, una clamorosa disfatta. Un capovolgimento epocale, tragico per l’Italia, avvenuto in poche ore. Lo sapevamo già. Ma è bene ripeterlo. Caporetto fu davvero una Caporetto: l’esercito in rotta, i comandi confusi, il capo supremo Luigi Cadorna che getta le responsabilità sui soldati senza assumersi le proprie, una ritirata disordinata, intere unità abbandonate a se stesse. In meno di due settimane, a partire dalle prime ore del 24 ottobre 1917, si piangono oltre 40 mila tra morti e feriti, 280 mila prigionieri, più di 350 mila sbandati. Senza contare le migliaia di cannoni, le armi leggere di ogni tipo, i veicoli, le munizioni, i depositi di cibo e vestiario, andati perduti o presi dal nemico. Quasi la metà dell’intero apparato militare italiano nel suo complesso svanito, fuori gioco. Il fronte arretra di oltre 150 chilometri, sino quasi a Venezia.
Terrà il Piave? Sognavamo Trento e Trieste, si mirava a Vienna, ma scopriamo che Cadorna valuta di arretrare al Po. A Roma c’è chi pensa per un attimo a una pace separata, in effetti alla resa. E non ci sono scusanti, neppure con il senno delle ricerche storiche posteriori, dei vecchi diari scovati nei cassetti e dei fondi d’archivio emersi cento anni dopo. Non serve insistere su isolati episodi d’eroismo, non serve enfatizzare alcuni limitati scontri a fuoco che crearono certo problemi al nemico, ma ebbero l’unico effetto di ritardare di poco l’avanzata austrotedesca.
Serve invece sottolineare quanto sia stato deleterio il ruolo della stampa allineata. I nostri giornalisti cantavano in coro la retorica della «bella morte», inventavano vittorie e successi mai avvenuti, gonfiavano il numero dei caduti nemici, edulcoravano quello dei nostri, magnificavano i «corpi bruniti e tonici» irrobustiti dalla vita in prima linea all’aria aperta, ma tacevano le difficoltà, sorvolavano sull’olezzo dei cadaveri imputriditi nella terra di nessuno, sul cibo scadente, il gelo d’inverno, l’arsura d’estate.
Le «barzinate» (dal nome dell’inviato più noto, Luigi Barzini) illudevano il grande pubblico a casa e facevano imbestialire gli ufficiali e i soldati scolarizzati che dalle trincee al fronte leggevano e bestemmiavano contro tante palesi falsità. Poi, però, quegli stessi reporter nelle lettere ai direttori e alle loro famiglie raccontavano verità che la censura non poteva tollerare e loro si erano imposti di non dire in pubblico pur di restare famosi e venire stampati in prima pagina: il morale dei soldati a pezzi, l’impreparazione dei comandi, la pochezza di risultati nelle undici offensive sull’Isonzo a fronte degli immensi sforzi, la follia delle cariche all’arma bianca contro i nidi di mitragliatrice, utili solo per sacrificare senza senso migliaia di giovani vite. Questo e tanto altro non scrissero gli «inviati di guerra». Con il risultato che i comandi militari li disprezzavano, ma al tempo stesso li utilizzavano volentieri per legittimarsi a «eroi» nazionali. E quello ancora più grave che mancò una coscienza critica, non ci fu alcun pungolo al cambiamento.
Eppure, i comandi italiani sapevano quasi tutto. Come ben sottolineano Silvia Morosi e Paolo Rastelli nel loro Caporetto, lo stesso Cadorna il 23 ottobre, poche ore prima dell’attacco nemico, scrive al ministro della Guerra Gaetano Giardino, e per conoscenza al re Vittorio Emanuele III, una «stupefacente» lettera (l’aggettivo è loro), in cui «il generalissimo prevede con estrema precisione quanto sta per succedere». In poche parole: le truppe scelte tedesche, smobilitate dal fronte orientale dopo lo scoppio della rivoluzione russa, si sono affiancate agli austriaci e hanno l’ordine di agire in modo indipendente: penetrare nel profondo delle retrovie italiane e avanzare senza sosta. Il loro attacco sarà preceduto da vasti bombardamenti con le armi chimiche. Si concentrerà nella zona di Caporetto, mirando alla dorsale del Kolovrat e alla linea Matajur-Monte Mia. Sono settimane che i disertori nemici e l’intelligence italiana rivelano l’imminenza dell’attacco.
Cadorna conosce persino l’ora dell’inizio dei bombardamenti nemici. Ma non fa nulla, non prende provvedimenti, non corregge le scelte del comandante della 2ª armata, il generale Luigi Capello, che pure da settembre non aveva obbedito al suo ordine di predisporre le truppe in assetto difensivo. Anzi, ancora Cadorna ordina agli ufficiali di tranquillizzare la truppa perché le maschere antigas in dotazione sono le «migliori esistenti». E infatti muoiono a migliaia nelle loro posizioni nel fondovalle della conca di Caporetto.
Il tenente Carlo Emilio Gadda ben racconterà nel Giornale di guerra e di prigionia l’incubo della sua compagnia d’artiglieria sul Monte Nero, che per tutta la giornata del 24 ottobre resta isolata, senza ordini, intuendo che fatti drammatici stanno avvenendo nel fondovalle, ma senza sapere che fare. Quindi la ritirata verso l’Isonzo tra gruppi di sbandati che gettano i fucili e non sanno come sottrarsi alla cattura.
Al suo racconto cupo, intristito dal senso di impotente passività, fa da contraltare quello vitale e attivo che traspare dai Diari del tenente tedesco Erwin Rommel, nato nel 1891, due anni prima di Gadda, che con la sua unità di assaltatori
Le cifre del disastro I morti e i feriti furono 40 mila e i prigionieri ben 280 mila. Oltre 350 mila gli sbandati Sognavamo di prendere Trento e Trieste ma perdemmo il Friuli. Il fronte arretrò oltre 150 chilometri, sino quasi a Venezia Il testimone Gadda racconta della sua compagnia d’artiglieria rimasta isolata e senza ordini
ha l’ordine di sfondare verso Udine, passando di corsa dal Kolovrat e dal Matajur. Sono due modi opposti di concepire la guerra e il rapporto tra soldati e comandi. Quello italiano gerarchizzato, immobile, burocraticamente lento. Il tedesco veloce, dinamico, volto a valorizzare le scelte degli ufficiali inferiori sul campo.
Cadorna sarà esonerato il 9 novembre. Ancora nel pieno della sconfitta. E mai decisione fu tanto appropriata. Tanto che appare curioso qualsiasi tentativi di riabilitarlo, anche se cento anni dopo.