Pattinson, corsa contro il tempo in un thriller di pura adrenalina
Affetti e criminalità. Il divo si libera dell’immagine di bello e dannato
Presentato a Cannes ma dimenticato dalla giuria, il film dei fratelli Josh e Benny Safdie Good Time è di quelli che crescono nella memoria e guadagnano a una seconda visione, quando la confusione «socio-esistenziale» dentro cui si dibattono i suoi personaggi rivela una lucidità di lettura e una finezza di recitazione che il parossismo cannense aveva come offuscato. Si rischia di sottovalutare lo sforzo dei due fratelli newyorkesi di muoversi a cavallo del cinema di genere e dentro le coordinate di quello indipendente per cercare di ampliarne entrambe le potenzialità, aprendo il film a una più ambiziosa lettura sociologica e insieme allontanandosi dai compiacimenti estetici tipicamente indy senza però perdere la spontaneità e la freschezza delle produzioni lontane da Hollywood.
Una doppia scommessa (vinta) cui non è estranea la scelta di affidare (e la decisione di accettare) il ruolo del protagonista a Robert Pattinson, le cui scelte professionali denotano — dopo Maps to the Stars di Cronenberg e Civiltà perduta di Gray — la voglia di liberarsi dallo stereotipo del «bello e dannato» conquistato con la saga di Twilight. Nel film dei Safdie è Connie Nikas, newyorkese del Queens che vorrebbe assicurare al fratello Nick mentalmente disturbato (interpretato da uno dei due registi, Benny Safdie) un futuro meno oppressivo e dolente. Un ruolo, quello dello spiantato uscito di galera e senza una vera prospettiva se non prendersi cura del fratello, che avrebbe potuto scivolare verso la composizione di maniera, tra il ribellistico e il melodrammatico, e che invece Pattinson sa tenere dentro i limiti di un realismo veritiero ma insieme sorprendente. Senza eccessi mimetici e però anche con una credibilità che non metti mai in discussione.
All’inizio del film sembra solo che sia la sfortuna a giocargli contro: dopo aver tolto Nick dalle mani dello psichiatra che lo ha in cura, Connie organizza con lui una rapina in banca che va a buon fine anche se sembra sempre sul punto di trasformarsi in una scena di Prendi i soldi e scappa. È la fuga che si complica (lasciamo allo spettatore scoprire come) e che finisce per dividere i due: Nick è arresta- to, Connie libero (ma ricercato), alla ricerca del modo con cui liberare il fratello. E anche se la situazione non è facile, sembra non perdere mai la capacità di far fronte a ogni imprevisto, anche quando scopre che dalla prigione Nick è stato portato in un ospedale.
A questo punto, però, la sfortuna diventa qualcos’altro perché il tentativo di liberare il fratello ospedalizzato spinge il film verso situazioni inaspettate, dove la sorpresa — che potrebbe anche generare qualche sorriso tanto le cose prendono pieghe impensate — finisce sempre per assumere un aspetto amaro e quasi sgradevole. Il viaggio di Connie (e dello spettatore) vira verso una specie di naufragio tra marginalità, disperazione e impotenza. Accanto al protagonista prendono forma altri personaggi: la folgorante apparizione di Jennifer Jason Leigh nel ruolo della fidanzata di Connie, nevrotica e insicura; l’adolescente Crystal (Taliah Webster) la cui incoscienza è l’altra faccia dell’amoralità dilagante; il disperato Ray (Buddy Duress) dentro cui si mescolano rabbia, stupidità e dipendenza dalle droghe. E poi ancora spacciatori, guardiani notturni, vecchi, in un carnevale di disperazione e inadeguatezza, dove cercheresti invano una persona comune, normale, quotidiana.
Tutto questo i due fratelli Safdie lo filmano con il formato CinemaScope, di solito riservato alle produzioni più spettacolari, usato qui in «controtendenza», come per rompere il realismo dell’ambientazione (il film è quasi tutto girato nel Queens) e aggiungere una componente più pop, sorprendente, che obbliga l’occhio di chi guarda quasi a orientarsi all’interno dello schermo lungo e stretto. È la loro anima «indipendente» che torna a farsi sentire, pronta a incrinare l’impianto realistico per spiazzare lo spettatore, a volte lasciandosi andare a lunghe tirate verbali altre volte giocando con gli stereotipi del sottobosco (la scena col cane). Ma con una capacità d’inventare e di sorprendere che fa perdonare qualche fragilità di troppo.
L’attore interpreta un giovane ex galeotto che vuole assicurare al fratello con disturbi psichici un futuro meno dolente