Il leader catalano: «Niente elezioni decida l’Assemblea»
Puigdemont esita, Madrid pronta a intervenire Oggi i voti sull’indipendenza e l’articolo 155
C’è un peso enorme sulle spalle di Carles Puigdemont, il president della Catalogna ribelle. Si vede dalle borse sotto gli occhi, dal colore malsano della pelle, dalla lampadina nel suo studio al Palau della Generalitat di Barcellona accesa da settimane sino alle ore più impensabili. «Avrei potuto convocare elezioni anticipate — ha detto ieri a metà di un giornata convulsa — e potrei ancora farlo perché è nei miei poteri fino a che non entri in vigore l’articolo 155». Invece no, non l’ha fatto anche se sembrerebbe l’unica soluzione ragionevole rimasta. Una via d’uscita umiliante magari, ma almeno democratica e di sicuro meno traumatica di una destituzione, meno drammatica di una retata di arresti nel suo governo e soprattutto meno tragica di un confronto di piazza tra indipendentisti e polizia, tra la «sovranità popolare alternativa» (che annunciavano ieri gli antisistema della Cup al Corriere) e quella dello Stato di diritto.
Tentenna Puigdemont, dubita, ascolta un’infinità di medialazzetto tori, sembra convincersi, ma poi si pente. Ieri alle 11.47, il leader catalano telefona a Anna Gabriel del gruppo anticapitalista Cup e le spiega che di lì a poco avrebbe annunciato elezioni anticipate. Sarebbe uno stop al commissariamento, anche il premier Rajoy lo ha fatto capire. Parte la convocazione per una «dichiarazione istituzionale» del president alle 13 e contemporaneamente scatta la mobilitazione degli indipendentisti per occupare Plaça de Sant Jaume, davanti all’ufficio di Puigdemont. I dietrologi davano già le medaglie: merito dei socialisti che hanno convinto il premier Rajoy a dare l’immunità ai dirigenti catalani; merito dei baschi che hanno fatto pesare i loro voti a Madrid obbligando Rajoy al compromesso. La dichiarazione però ritarda, slitta di un’ora. Ci ripensa? In piazza spunta il cartello: «Puigdemont traditore». Il president dal suo studio sentirà gli insulti? Arrivano gli agenti anti sommossa, sono Mossos catalani, non spagnoli della Guardia Civil per il momento.
Dalle porte intagliate del pa- gotico escono funzionari imbarazzati. «La dichiarazione è sospesa». È lo spettacolo di una politica nel caos, incapace di controllare ciò che ha messo in movimento. Alla fine Puigdemont esce, alle 17, e legge la pagina dell’avrei potuto indire elezioni, ma non l’ho fatto.
«Sarei stato disposto a farlo se ci fossero state alcune garanzie. Ma di queste garanzie non ce n’è neppure una».
Cosa non ha ottenuto Puigdemont? Qualcuno dice l’immunità, qualcuno la libertà per chi è già in carcere. Mercoledì aveva escluso compromessi, poi ieri il ripensamento e il ripensamento del ripensamento, prigioniero del labirinto che si è costruito da solo. «Il Processo di Kafka è meno kafkiano di ciò a cui ci ha sottoposto oggi il signor Puigdemont» (copyright Inés Arrimadas di Ciudadanos).
Il Senato di Madrid è pronto ad approvare il commissariamento della Catalogna, la sottrazione, almeno temporanea, dell’autonomia. Entro sei mesi elezioni regionali, ma in quei sei mesi coesistenza difficilissima tra funzionari riottosi e commissari sgraditi. Lo sguardo tagliente e il fondotinta perfetto della vice presidenta spagnola Soraya Sáenz de Santamaría nel Senato di Madrid erano l’opposto della maschera affranta di Puigdemont. «Restituiremo la democrazia alla Catalogna», ha assicurato.
Oggi alle 12 sono convocate le due assemblee. A Madrid per approvare il 155. A Barcellona per l’indipendenza o le elezioni.