Canada, Donna Aquila e le altre Le leader della riscossa indigena
«Siamo state trattate come rifugiate nella nostra terra, ora vogliamo essere parte del sistema»
Oltre le grandi vetrate del museo dei diritti umani a Winnipeg, c’è un’installazione che colpisce come un pugno allo stomaco: abiti rossi, appesi nel vuoto, simbolo di un dramma nascosto. «Sorelle, madri, figlie scompaiono con fastidiosa frequenza in Canada — spiega un cartello —. Le donne delle Prime nazioni, inuit e métis corrono un rischio tre volte maggiore rispetto alle altre di subire violenza. Sono vittime in numero record di omicidi, spesso irrisolti». Il titolo è una speranza: dal dolore alla forza.
Al governo
«Una nazione non è conquistata finché i cuori delle sue donne non sono sul terreno — ricorda un proverbio Cheyenne —. A quel punto è finita, non importa quanto coraggiosi siano i suoi guerrieri». In Canada, le aborigene non sembrano essersi mai arrese. Sempre in prima linea nella difesa della loro terra e cultura, fino ai più recenti scontri fra i guerrieri Mohawk e l’esercito canadese in Québec, all’inizio degli anni Novanta, o alle battaglie contro gli oleodotti e il fracking per estrarre petrolio nelle riserve. Non è un caso se, con sapiente strategia d’immagine, il premier liberale Justin Trudeau due anni fa scelse proprio una indigena, Jody Wilson-Raybould, di etnia Kwakwaka’wakw, come ministra della Giustizia.
Frecce, penne e totem sono il passato. Oggi la lotta delle Prime nazioni si combatte nelle aule dei tribunali e in quelle delle università. E spesso sono le donne al comando. «In campo giuridico oggi c’è grandissima richiesta di professori e professionisti indigeni — assicura Angelique EagleWoman (Donna Aquila), presidente della facoltà di legge alla Lakehead University —. Siamo stati trattati come dei rifugiati nella nostra terra. Le nostre risorse sono state portate via. La nostra capacità di governarci negata. Ora stiamo ristabilendo chi siamo, come nazione. Siamo passati dalla fase di “sopravvissuti” a quella della “sussistenza”, e finalmente a quella dell’autorealizzazione».
Aperta tre anni fa a Thunder Bay, in Ontario, la facoltà specializzata in diritto indigeno accoglie studenti dalle più remote comunità dell’estremo Nord e offre consulenza gratuita agli aborigeni a basso reddito, per ottenere certificati di nascita o di proprietà. «Prima che si richiudano le porte dobbiamo far passare più cose possibili», avverte la rettrice EagleWoman.
In Canada la popolazione indigena è in fortissima crescita (in cinque anni, più 6%) ei problemi aperti sono ancora moltissimi, nonostante l’ottimismo (e le promesse) di Trudeau. L’Inchiesta nazionale sulle donne scomparse e uccise è in alto mare e l’alto tasso di disoccupazione, alcolismo e criminalità giovanile nelle comunità indigene resta un nodo irrisolto. Ma l’aspetto più delicato riguarda l’educazione. In base all’Indian Act, che regola dal 1876 i rapporti fra lo Stato e le 600 comunità aborigene, le scuole sono una responsabilità federale, però lo Stato dispensa per ogni studente una cifra inferiore a quella che le province danno agli altri giovani. Risultato: solo il 9,8% degli indigeni ha una laurea, contro il 28 del resto dei canadesi.
Nella riserva delle Sei Nazioni, la più grande del Canada, dagli anni Settanta si è imboccata una strada alternativa: il Politecnico indigeno. «L’obbiettivo era controbilanciare lo strapotere dell’educazione “occidentale”, l’assimilazione, il divieto di usare le nostre tradizioni e le nostre lingue», spiega la presidente Rebecca Jamieson. Si studiano le materie «occidentali» ma con l’aggiunta di un sentire indigeno, che coinvolge gli «anziani» della comunità nella vita del campus.
Gli stereotipi
In Canada sopravvivono molti stereotipi sulle Prime nazioni — guai a chiamarli «pellerossa» o «indiani» —, nelle scuole si spiega ancora una storia troppo breve e la ferita delle Scuole residenziali — dove migliaia di bambini e ragazzi indigeni furono costretti a vivere rinchiusi, strappati dalle famiglie e spesso abusati, fino ad oltre metà del secolo scorso — è tutt’altro che rimarginata. «Parte del processo di riconciliazione è raccontare cosa è davvero successo. Noi eravamo già qui prima che il Canada nascesse, 150 anni fa — conclude Jamieson —. Comunque, stiamo riuscendo meglio che negli Stati Uniti. Anni fa, probabilmente l’establishment politico pensava “diamogli un po’ di soldi così stanno tranquilli”, ma abbiamo continuato a crescere, numericamente e socialmente, e ora vogliamo essere parte del sistema».
All’orizzonte già si intravede una piccola rivoluzione: il riconoscimento dell’autogoverno indigeno, che potrebbe in futuro affiancare l’amministrazione federale e quella provinciale.