Le promesse (social) del calcio
Alessandro, 10 anni e 43 mila follower, da Kansas City a Roma Davis, Sarno e gli altri, in molti si smarriscono Ma il vero talento dura
Ale cammina che sembra un uomo, con le scarpette di gomma morbidissima: le stesse di Cristiano Ronaldo, col baffetto. Ha dieci anni, 43.327 follower su Instagram, un canale Youtube «official», un soprannome evocativo, Lupo, e lo stesso sogno di quasi tutti quelli che hanno dieci anni: giocare a pallone. Forse ci riuscirà forse no, intanto nel 2018 si trasferirà in Italia da Kansas City, dove è cresciuto, per entrare nell’academy della Roma. Dice di lui papà Eddie, ristoratore italoamericano e suo social media manager personale: «Un leone o una tigre saranno tosti ma non puoi esibire un lupo in un circo». Qualunque cosa significhi, viene quasi da rimpiangere i tempi in cui i padri peggiori si limitavano a piantarsi dietro la panchina per sacramentare contro l’allenatore che non gli metteva titolare il figlioletto.
Bastava da sé il calcio insomma a solleticare frustrazioni e sogni di gloria, con i social la miscela è diventata esplosiva. O meglio sta diventando, perché la vicenda del piccolo Alessandro Cupini, sigla ufficiale AC7 che suona tanto CR7, raccontata dal Guardian, è solo una delle più mediatiche: basta un giro su Youtube per capire che per farci stare tutti gli aspiranti Neymar da mille palleggi non basterebbe il campo di Holly e Benji, che non finiva mai. In fondo basta uno smartphone e una buona attitudine. Perché, come dice Mino Favini, mago dei vivai, «il talento dura». Di sicuro più di un filmatino.
Uno dei casi più eclatanti è l’australiano Rhain Davis: a 9 anni fu lanciato dal padre come star di Youtube, nel 2007 arrivò al Manchester United, ora è in 5ª divisione britannica. Nel 2011 un bimbo olandese, Baerke van der Meij, ha firmato un contratto con una società professionistica, il VVV, dopo che i genitori lo avevano filmato mentre calciava la palla tre volte su tre nel cesto della biancheria. A 18 mesi. La cosa assurda è che non è una trovata pubblicitaria: «Ha tecnica, fino ai 10 anni è nostro».
A 14 Freddy Adu finiva sulla copertina del videogioco Fifa 06 insieme a Ronaldinho. Il nuovo Pelè, si diceva: svanito. Hachim Mastour è stato per anni un predestinato, le sue «skills», le sue qualità, spopolavano sui social: è ancora sotto contratto col Milan ma a 19 anni si allena da solo, l’ultimo ricordo della celebrità perduta sono i 600 mila che lo seguono ancora su Instagram.
Certo, non sempre finisce male: quando l’attitudine è talento vero, riflettori o meno si sfonda. Ricordate Erik Lamela, ala della Roma oggi al Tottenham? Da bambino fu uno dei primi casi di campioncino 2.0, la sua carriera fu subito vivisezionata da tv e social in Argentina, giorno per giorno. C’è un’intervista di lui a 12 anni che dice: «Sono nato per giocare al calcio». Vero, ma è l’eccezione. A 11 anni Vincenzino Sarno fu comprato dal Toro per 120 milioni di lire, poi una carriera mediocre e l’ammissione: «Il calcio mi tolse la serenità». Era il ’99, i social non c’erano, finì a Porta a Porta. Digitale o analogica, la colpa è sempre dei grandi.