Corriere della Sera

Un filo d’erba E ci si innamorò del Giappone

- Di Matteo Persivale

Per capire come mai nella seconda metà dell’Ottocento tanti artisti (tra i quali anche Henri de Toulouse-Lautrec) s’innamoraro­no del Giappone, della sua arte, della sua filosofia, possiamo ragionare sull’importanza dell’apertura dell’impero del Sol Levante all’Occidente (1853), sulle ragioni del successomo­nstre del padiglione giapponese all’Esposizion­e Universale di Parigi (1867), sull’influenza dell’assoluta, poetica semplicità del ukiyo-e sugli impression­isti e i post-impression­isti, su Whistler che scopre le stampe giapponesi in una sala da té londinese e su Monet che resta incantato, in un negozio di spezie olandese, dalla carta giapponese che avvolge il suo pacchetto. Possiamo prendere un biglietto aereo e andare a Boston, al Museum of Fine Arts, e sederci al cospetto della «Japonaise», il ritratto che Monet fece alla moglie Camille con un meraviglio­so kimono rosso, circondata da ventagli, una parrucca bionda sui capelli neri a sottolinea­re ancor di più quanto fosse un’occidental­e che giocava a travestirs­i — ancora oggi il commento più sottile, spiritoso e alquanto profondo sull’impossibil­ità per noi «gaijin» (letteralme­nte: persone esterne a quel mondo, «non nativi») di scoprire davvero il Giappone. Oppure, possiamo sempliceme­nte ascoltare quello che ha da dirci Vincent Van Gogh, in una delle sue lettere al fratello Theo: «Se studiamo l’arte giapponese, scopriamo un uomo che è innegabilm­ente saggio, filosofico, intelligen­te, che passa il suo tempo – a fare cosa? A studiare la distanza tra la terra e la luna? No! A studiare le politiche di Bismarck? No! Studia… un singolo filo d’erba. Ma quel filo d’erba lo porta a disegnare tutte le piante – poi le stagioni, l’immenso spettacolo dei paesaggi e, alla fine, la figura umana. Così passa la sua vita, che è troppo breve per permetterc­i fare tutto». Perché gli artisti giapponesi, scriveva Van Gogh, «vivono come se essi stessi fossero dei fiori».

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Schiena Taiso Yoshitoshi, «Moxa»

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