La resistenza del segretario alla linea del «buon senso»: poi i voti sono io che li porto
«Corre chi ha vinto le primarie». Verso le urne il 4 marzo
«Capisco Paolo, capisco tutti, ma non sarà il buon senso a farci vincere queste elezioni». Matteo Renzi ascolta prima Marco Minniti, poi Andrea Orlando, infine il presidente del Consiglio, che abbraccia, ma da cui riceve in sostanza una lezione.
Il filo conduttore della «lezione» è che lui stesso, come segretario del Partito democratico, dovrebbe cambiare registro. Il capo del governo lo dice in modo diplomatico, ma senza peli sulla lingua: gli ricorda che ci vuole rispetto per la prima carica dello Stato, che bisogna fare gioco di squadra, che occorre oggi più che mai il senso dell’unità. Renzi ascolta, sorride, abbozza, oggi replicherà con la sua versione, concludendo la conferenza programmatica di Napoli e c’è da giurare che non tutti i suggerimenti verranno accolti, per usare un eufemismo.
Quello cui tutti alludono, ma che nessuno ha il coraggio di dire esplicitamente, è che le parole squadra, unità, stile, rispetto istituzionale fanno rima, nella mente dei maggiorenti del Pd, con un pressing che ha un solo obiettivo: la candidatura alla guida di Palazzo Chigi. In tanti sognano un passo indietro di Renzi, lui non ci pensa nemmeno, forte dello Statuto, delle primarie che ha rivinto, di liste elettorali dove è pronto a piazzare non meno di 150 «fedelissimi» fra Camera e Senato.
In apparenza l’ex premier, pur avendo la percezione di un accerchiamento, ha le idee molto chiare: «I voti li porto io e la campagna elettorale la farò io». Certo ci saranno delle scelte di comunicazione, di stile, di aggregazione o di inclusione: potrà davvero fare «squadra» l’ex Rottamatore, ma alla fine l’ha già detto a chiare lettere a Le Monde, in un’intervista che i delegati di Napoli hanno letto mentre si aprivano i lavori della conferenza, «le regole del partito vogliono che il candidato sia il segretario che ha vinto le primarie». Amen.
Insomma Renzi ha già risposto ai suoi ministri, a Gentiloni, a Franceschini, alla corrente del ministro Orlando, prima ancora che questi prendessero la parola. Del resto c’è almeno un’altra convinzione che cozza con i suggerimenti dei maggiorenti di una fetta del partito: «Sono convinto che solo una campagna di rottura sarà vincente». E in fondo un antipasto si è visto con la vicenda Bankitalia, per la quale il segretario del Pd non ci ha pensato un attimo a schierarsi sia contro Palazzo Chigi che contro il Quirinale.
Sul resto, dicono i suoi, c’è poca politica e molti messaggi interni, quasi da addetti ai lavori: «Cercano di passargli il cerino, ma Matteo non è stupido e ha le spalle larghe. Orlando avrà la sua quota di candidature, e così anche Emiliano, ma tutti anche sanno che con l’Mdp un accordo è impossibile, in primo luogo perché non lo vogliono loro, da Massimo D’Alema a Pier Luigi Bersani. La loro condizione è che Renzi dica che non sarà più premier, ovviamente impossibile».
Un navigato ed esperto osservatore delle dinamiche politiche del nostro Paese, come Bruno Vespa, paragonava ieri Renzi a Bettino Craxi: «Si è di nuovo aperta la caccia al cinghialone», ha scritto, aggiungendo
però che il politico di Pontassieve ha più carte da giocare del leader socialista, e il vantaggio di non avere guerre aperte con i magistrati.
Insomma quell’assetto largo, unitario, nella sostanza e anche nei modi, di rimettere in pista il centrosinistra è al momento per Matteo Renzi poco più di una chimera. Al massimo, visto che la nuova legge elettorale lo suggerisce, potranno trovarsi intese nei collegi uninominali, con l’Mdp, ma anche questo al momento appare più complicato a farsi che a dirsi.
Sullo sfondo, ma nemmeno tanto, resta la probabilità che i giochi veri si faranno dopo il voto, non prima. E che l’ipotesi di una sintesi politica fra Renzi e Berlusconi sia più semplice che «ricostruire il centrosinistra», come chiedeva ieri a Renzi il ministro Orlando. Ad ascoltare i suoi l’ex premier è convinto che il massimo del perimetro del Pd attuale si può allargare ai socialisti, ai radicali, all’Italia dei valori. Il ministro dell’Interno ieri ha in sostanza confermato che si voterà il 4 marzo: da oggi ad allora si annunciano parecchie sorprese, in primo luogo, tanto per cambiare, nel Pd.