Riscaldarsi alla luce del Nord
Una periferia la cui narrativa esprime il fascino e le contraddizioni della modernità
Herder, uno dei più geniali e poliedrici scrittori di quella straordinaria stagione filosofico-letteraria fra Illuminismo, Classicismo e Romanticismo che si suole chiamare «l’età di Goethe» e che comprende alcuni fra i massimi poeti e filosofi d’ogni tempo, vedeva e concepiva l’umanità come un grande albero, estremamente vario nella molteplicità e diversità delle sue componenti — le radici, i rami, le foglie, le forme e i colori, i fiori e i frutti — ma organicamente unitario nella linfa che lo pervade tutto.
Herder cercava questa profonda unità dell’umano nella diversità delle sue manifestazioni, della sua storia, delle sue lingue e delle sue espressioni poetiche. Voci dei popoli nei canti s’intitola la sua affascinante raccolta di poesie delle più diverse genti ed epoche. Quei canti, dalla canzone popolare lettone ascoltata e raccolta durante la festa del solstizio d’estate al lamento per la morte dell’Aga islamico nei Balcani, esprimono l’individualità dell’autore e l’anonima coralità che si raccoglie nella sua voce. Col suo senso dell’unità — diversità dell’umanità, essa è più che mai necessaria oggi, per superare la stolida e letale antitesi fra globalizzazione uniformante e diversità selvaggia ringhiosamente chiusa a tutte le altre voci umane.
Uno di questi rami, grande e a sua volta variegato, dell’albero dell’umanità è il mondo nordico, scandinavo. Dalla potenza epica e mitica dell’Edda e dell’Edda Snorra — poemi di eroi e di dèi, di tragiche fatalità, di fondazione e di fine del mondo — alla laconica essenzialità delle saghe o alla raffinata e ardua lirica metaforica della poesia composta dagli scaldi, poeti dottissimi sullo sfondo di una verginità primordiale, la letteratura scandinava (o meglio nordica, dato il rilievo dell’epica finnica) è stata una delle più grandi province della letteratura universale. E lo è stata non solo in quei secoli di ferro in cui si componeva la Saga di Njall, ma anche nella modernità, nel romanzo dell’Ottocento borghese che avrebbe influenzato i Buddenbrook e nella grande crisi e dissonanza della cultura e della vita che dalla fine del secolo diciannovesimo ha sconvolto, liberato e frantumato un secolare ordine di civiltà e il volto stesso dell’uomo. A questa grande dissonanza che è ancora la nostra, la cultura nordica ha dato alcune fra le voci e le espressioni più grandi, da Kierkegaard a Jacobsen, da Strindberg a Ibsen a Hamsun all’Urlo di Munch. C’è una luce del Nord che illumina, tragica e struggente, il paesaggio della civiltà e dell’anima moderna.
A questa provincia universale del Settentrione dedica completamente la sua attività una delle più originali case editrice italiane, Iperborea, diretta da Emilia Lodigiani con rigore e fantasia, con un fiuto da segugio per opere e testi talora dimenticati e nascosti, almeno per noi, ma straordinariamente capaci di illuminare il nostro destino. Perché questa (felice) scelta esclusiva pur nella sua varietà? chiedo a Emilia Lodigiani. Quando è nata questa idea, perché ha pensato che questa costellazione nordica potesse essere così illuminante per il nostro presente?
Emilia Lodigiani — Il mio amore per la Scandinavia viene da lontano, maturato a tappe. La prima immagine mitica me l’avevano creata i Mumin, gli scanzonati e nevrotici «troll» filosofi di Tove Jansson, l’imprevedibile
e geniale Pippi Calzelunghe di Astrid Lindgren, e Bibi, l’undicenne figlia di capostazione di Karin Michaëlis che poteva girarsene da sola in treno per tutta la Danimarca. Era l’idea di un mondo anticonvenzionale di libertà e indipendenza, di una natura magica e selvaggia, e una società rassicurante, in cui curiosità, fantasia, amicizia e spirito di avventura erano i soli requisiti richiesti per cavarsela nella vita. Identificavo il Nord con la felicità dell’infanzia. Poi, attraverso Tolkien e Wagner, ho scoperto la letteratura medievale, le storie degli dei ed eroi dell’Edda, di una mitologia che esplora il problema del male, ponendosi quegli interrogativi etici che i greci delegavano piuttosto alla filosofia. E
le saghe, grazie a Borges e al suo meraviglioso saggio sulle letterature germaniche medievali, con quella sua analisi, che mi sembrava quasi evidenziare una costante delle due culture, della differenza del rapporto tra l’uomo e il suo destino nel mondo classico — Edipo che cerca di lottare contro la profezia dell’oracolo — e nell’eroe nordico, la cui grandezza sta invece nell’andare imperturbabile incontro al proprio fato. E infine i grandi classici: Ibsen per primo, la sua disturbante teoria della «menzogna vitale», il dilemma tra il «sii te stesso» e il «ti basti essere quello che sei» di Peer Gynt, l’io senza centro della sua cipolla sfogliata. Ma in questa fase subivo chiaramente l’influsso dei tuoi saggi rivelatori su Ibsen, Hamsun, Jacobsen nell’Anello di Clarisse e mi chiedevo a quando risalissero la tua passione e la profonda conoscenza del Nord: addirittura a prima di quella per l’«impero absburgico»?
Claudio Magris — Sì, è stata una passione herderiana fin dall’adolescenza, dapprima in buone volgarizzazioni per ragazzi e poi, assai presto, nelle grandi e rigorose versioni — l’Edda, tradotta da Mastrelli e poi da Scardigli, l’Edda Snorra, le saghe in traduzioni tedesche, il Kalevala finlandese tradotto da Pavolini e molti altri testi… Mi affascinavano la solitudine, il biancore, il secco incedere del destino. Mi colpiva la differenza tra la versione germanica del mito dei Nibelunghi — in cui la donna che perde lo sposo lo vendica uccidendo i propri fratelli colpevoli della sua morte ossia in cui la scelta amorosa individuale prevale sul legame di sangue — e la versione nordica, in cui la donna vendica la morte dei fratelli ossia in cui prevale il legame della stirpe, di sangue; quello che conta è la famiglia da cui si proviene, non quella che, uscendo da casa, si fonda…
Emilia Lodigiani — Non è però dai classici che è nata l’idea di Iperborea, ma dal mio incontro di lettrice con quella generazione di straordinari scrittori contemporanei finalmente usciti dai loro confini agli inizi degli anni Ottanta. Quando mi sono resa conto che autori come Lars Gustafsson, P.O. Enquist, Torgny Lindgren, Henrik Stangerup, Thorkild Hansen, per nominarne solo alcuni già noti in Francia dove vivevo, non erano tradotti in Italia, mi è sembrato prodigioso trovarmi davanti all’opportunità di pubblicarli. Quello che mi affascinava era la loro capacità di confrontarsi con il presente, spesso anticipando problemi da noi diventati solo più tardi attuali — per esempio la crisi dello stato sociale, di cui avevano creato il modello, l’ecologia, a loro imposta da sempre da una natura imperiosa, il femminismo, primi Paesi a garantire l’educazione e il voto alle donne, e il conseguente cambiamento del rapporto uomo/donna — muovendosi al tempo stesso con naturalezza nella grande tradizione nordica dei temi esistenziali, che fosse l’estraneità dell’io alla vita di Gustafsson, l’interrogazione critica della storia nei personaggi di Enquist, l’ir-
riverente e appassionato confronto con Dio di Lindgren… C’è in tutti una base che riconosciamo come nostra, legata alle comuni radici europee, e insieme una prospettiva diversa, quasi esotica.
Claudio Magris — Sì, è incredibile come questa periferia geografica d’Europa — ad esempio nella Norvegia ottocentesca, Paese povero di contadini e pescatori, paese di emigrazione — nasca una narrativa che esprime tutto il fascino e le contraddizioni della modernità. Non a caso Thomas Mann si ispirerà esplicitamente al romanzo famigliare scandinavo di Jonas Lie o Alexander Kjelland, patria del sentimento e dell’intimità che a poco a poco conosce il dubbio sulla sicurezza dei propri valori. Ma la Scandinavia sarà presto la patria della più inquieta cultura europea e occidentale. Strindberg, Ibsen o Hamsun scenderanno nel maelstrom turbinoso della società e dell’Io, scopriranno la dissociata pluralità di quest’ultimo, la lacerazione irreparabile del mondo. I boschi taciturni del Nordland diventano lo scenario degli Inferi della modernità. Ibsen ha rappresentato il dramma della necessità e dell’impossibilità di vivere, con una visione tragica tuttora insuperata. Come ha scritto Maria Fancelli, forse nessun autore ha permeato, forgiato la mia visione del mondo e della sua rappresentazione come Ibsen. Quali sono, oggi, gli autori iperborei più significativi? Le differenze nazionali e linguistiche tra svedesi, danesi, norvegesi, islandesi, finlandesi contano molto?
Emilia Lodigiani — Oltre che negli autori già citati e in altri classici, come Dagerman, Selma Lagerlöf, Hamsun… che continuiamo a proporre, ritroviamo i nostri fili rossi anche in scrittori più giovani: la capacità di anticipare problematiche destinate a diventare urgenti, come il fondamentalismo islamico o il nazionalismo indipendentista nei romanzi di Björn Larsson, o nelle voci di immigrati di seconda generazione, come Jonas Khemiri, attento ai temi dell’identità e della memoria. Se Linneo — una delle tue passioni, se non erro — è alla base di quel modo di guardare e descrivere la realtà con l’occhio rigoroso e distaccato del naturalista, che è forse la caratteristica più unificante di tutta la letteratura scandinava, il nostro Fredrik Sjöberg, entomologo e scrittore, ne è il diretto erede, anche se più portato all’umorismo e all’autoironia che non al fatale pessimismo del grande classificatore. Antidoto alla malinconia nordica sono gli umoristi finlandesi, maestri di quell’understatement che ritroviamo nei film dei Kaurismäki, dal paradossale Paasilinna alla sottile Tove Jansson. Ma un posto a parte nel cuore iperboreo lo merita l’Islanda che, con i suoi trecentomila abitanti — «la popolazione di Firenze ai tempi di Dante, Boccaccio e Petrarca», vantava sempre, con le sue solite iperboli ed esagerazioni, anch’esse molto islandesi, Thor Vilhjálmsson — dal premio Nobel Halldór Laxness al nostro Jón Kalman Stefánsson, sembra non avere mai perso la vena incantata degli scaldi e delle saghe. Un’ultima aggiunta: l’esplorazione del Nord di Iperborea si è con il tempo ampliata a Olanda, Belgio, ai Paesi Baltici, e a Natale festeggeremo i nostri trent’anni con una nuova collana, i Miniborei, dedicata ai bambini. Un ritorno al mondo magico dell’infanzia, con curiosità e spirito di avventura.
Questi scrittori nei loro libri hanno saputo anticipare temi poi diventati attuali anche da noi: la crisi dello Stato sociale, l’ecologia, il femminismo