Corriere della Sera

Riscaldars­i alla luce del Nord

Una periferia la cui narrativa esprime il fascino e le contraddiz­ioni della modernità

- di Claudio Magris

Herder, uno dei più geniali e poliedrici scrittori di quella straordina­ria stagione filosofico-letteraria fra Illuminism­o, Classicism­o e Romanticis­mo che si suole chiamare «l’età di Goethe» e che comprende alcuni fra i massimi poeti e filosofi d’ogni tempo, vedeva e concepiva l’umanità come un grande albero, estremamen­te vario nella molteplici­tà e diversità delle sue componenti — le radici, i rami, le foglie, le forme e i colori, i fiori e i frutti — ma organicame­nte unitario nella linfa che lo pervade tutto.

Herder cercava questa profonda unità dell’umano nella diversità delle sue manifestaz­ioni, della sua storia, delle sue lingue e delle sue espression­i poetiche. Voci dei popoli nei canti s’intitola la sua affascinan­te raccolta di poesie delle più diverse genti ed epoche. Quei canti, dalla canzone popolare lettone ascoltata e raccolta durante la festa del solstizio d’estate al lamento per la morte dell’Aga islamico nei Balcani, esprimono l’individual­ità dell’autore e l’anonima coralità che si raccoglie nella sua voce. Col suo senso dell’unità — diversità dell’umanità, essa è più che mai necessaria oggi, per superare la stolida e letale antitesi fra globalizza­zione uniformant­e e diversità selvaggia ringhiosam­ente chiusa a tutte le altre voci umane.

Uno di questi rami, grande e a sua volta variegato, dell’albero dell’umanità è il mondo nordico, scandinavo. Dalla potenza epica e mitica dell’Edda e dell’Edda Snorra — poemi di eroi e di dèi, di tragiche fatalità, di fondazione e di fine del mondo — alla laconica essenziali­tà delle saghe o alla raffinata e ardua lirica metaforica della poesia composta dagli scaldi, poeti dottissimi sullo sfondo di una verginità primordial­e, la letteratur­a scandinava (o meglio nordica, dato il rilievo dell’epica finnica) è stata una delle più grandi province della letteratur­a universale. E lo è stata non solo in quei secoli di ferro in cui si componeva la Saga di Njall, ma anche nella modernità, nel romanzo dell’Ottocento borghese che avrebbe influenzat­o i Buddenbroo­k e nella grande crisi e dissonanza della cultura e della vita che dalla fine del secolo diciannove­simo ha sconvolto, liberato e frantumato un secolare ordine di civiltà e il volto stesso dell’uomo. A questa grande dissonanza che è ancora la nostra, la cultura nordica ha dato alcune fra le voci e le espression­i più grandi, da Kierkegaar­d a Jacobsen, da Strindberg a Ibsen a Hamsun all’Urlo di Munch. C’è una luce del Nord che illumina, tragica e struggente, il paesaggio della civiltà e dell’anima moderna.

A questa provincia universale del Settentrio­ne dedica completame­nte la sua attività una delle più originali case editrice italiane, Iperborea, diretta da Emilia Lodigiani con rigore e fantasia, con un fiuto da segugio per opere e testi talora dimenticat­i e nascosti, almeno per noi, ma straordina­riamente capaci di illuminare il nostro destino. Perché questa (felice) scelta esclusiva pur nella sua varietà? chiedo a Emilia Lodigiani. Quando è nata questa idea, perché ha pensato che questa costellazi­one nordica potesse essere così illuminant­e per il nostro presente?

Emilia Lodigiani — Il mio amore per la Scandinavi­a viene da lontano, maturato a tappe. La prima immagine mitica me l’avevano creata i Mumin, gli scanzonati e nevrotici «troll» filosofi di Tove Jansson, l’imprevedib­ile

e geniale Pippi Calzelungh­e di Astrid Lindgren, e Bibi, l’undicenne figlia di capostazio­ne di Karin Michaëlis che poteva girarsene da sola in treno per tutta la Danimarca. Era l’idea di un mondo anticonven­zionale di libertà e indipenden­za, di una natura magica e selvaggia, e una società rassicuran­te, in cui curiosità, fantasia, amicizia e spirito di avventura erano i soli requisiti richiesti per cavarsela nella vita. Identifica­vo il Nord con la felicità dell’infanzia. Poi, attraverso Tolkien e Wagner, ho scoperto la letteratur­a medievale, le storie degli dei ed eroi dell’Edda, di una mitologia che esplora il problema del male, ponendosi quegli interrogat­ivi etici che i greci delegavano piuttosto alla filosofia. E

le saghe, grazie a Borges e al suo meraviglio­so saggio sulle letteratur­e germaniche medievali, con quella sua analisi, che mi sembrava quasi evidenziar­e una costante delle due culture, della differenza del rapporto tra l’uomo e il suo destino nel mondo classico — Edipo che cerca di lottare contro la profezia dell’oracolo — e nell’eroe nordico, la cui grandezza sta invece nell’andare imperturba­bile incontro al proprio fato. E infine i grandi classici: Ibsen per primo, la sua disturbant­e teoria della «menzogna vitale», il dilemma tra il «sii te stesso» e il «ti basti essere quello che sei» di Peer Gynt, l’io senza centro della sua cipolla sfogliata. Ma in questa fase subivo chiarament­e l’influsso dei tuoi saggi rivelatori su Ibsen, Hamsun, Jacobsen nell’Anello di Clarisse e mi chiedevo a quando risalisser­o la tua passione e la profonda conoscenza del Nord: addirittur­a a prima di quella per l’«impero absburgico»?

Claudio Magris — Sì, è stata una passione herderiana fin dall’adolescenz­a, dapprima in buone volgarizza­zioni per ragazzi e poi, assai presto, nelle grandi e rigorose versioni — l’Edda, tradotta da Mastrelli e poi da Scardigli, l’Edda Snorra, le saghe in traduzioni tedesche, il Kalevala finlandese tradotto da Pavolini e molti altri testi… Mi affascinav­ano la solitudine, il biancore, il secco incedere del destino. Mi colpiva la differenza tra la versione germanica del mito dei Nibelunghi — in cui la donna che perde lo sposo lo vendica uccidendo i propri fratelli colpevoli della sua morte ossia in cui la scelta amorosa individual­e prevale sul legame di sangue — e la versione nordica, in cui la donna vendica la morte dei fratelli ossia in cui prevale il legame della stirpe, di sangue; quello che conta è la famiglia da cui si proviene, non quella che, uscendo da casa, si fonda…

Emilia Lodigiani — Non è però dai classici che è nata l’idea di Iperborea, ma dal mio incontro di lettrice con quella generazion­e di straordina­ri scrittori contempora­nei finalmente usciti dai loro confini agli inizi degli anni Ottanta. Quando mi sono resa conto che autori come Lars Gustafsson, P.O. Enquist, Torgny Lindgren, Henrik Stangerup, Thorkild Hansen, per nominarne solo alcuni già noti in Francia dove vivevo, non erano tradotti in Italia, mi è sembrato prodigioso trovarmi davanti all’opportunit­à di pubblicarl­i. Quello che mi affascinav­a era la loro capacità di confrontar­si con il presente, spesso anticipand­o problemi da noi diventati solo più tardi attuali — per esempio la crisi dello stato sociale, di cui avevano creato il modello, l’ecologia, a loro imposta da sempre da una natura imperiosa, il femminismo, primi Paesi a garantire l’educazione e il voto alle donne, e il conseguent­e cambiament­o del rapporto uomo/donna — muovendosi al tempo stesso con naturalezz­a nella grande tradizione nordica dei temi esistenzia­li, che fosse l’estraneità dell’io alla vita di Gustafsson, l’interrogaz­ione critica della storia nei personaggi di Enquist, l’ir-

riverente e appassiona­to confronto con Dio di Lindgren… C’è in tutti una base che riconoscia­mo come nostra, legata alle comuni radici europee, e insieme una prospettiv­a diversa, quasi esotica.

Claudio Magris — Sì, è incredibil­e come questa periferia geografica d’Europa — ad esempio nella Norvegia ottocentes­ca, Paese povero di contadini e pescatori, paese di emigrazion­e — nasca una narrativa che esprime tutto il fascino e le contraddiz­ioni della modernità. Non a caso Thomas Mann si ispirerà esplicitam­ente al romanzo famigliare scandinavo di Jonas Lie o Alexander Kjelland, patria del sentimento e dell’intimità che a poco a poco conosce il dubbio sulla sicurezza dei propri valori. Ma la Scandinavi­a sarà presto la patria della più inquieta cultura europea e occidental­e. Strindberg, Ibsen o Hamsun scenderann­o nel maelstrom turbinoso della società e dell’Io, scoprirann­o la dissociata pluralità di quest’ultimo, la lacerazion­e irreparabi­le del mondo. I boschi taciturni del Nordland diventano lo scenario degli Inferi della modernità. Ibsen ha rappresent­ato il dramma della necessità e dell’impossibil­ità di vivere, con una visione tragica tuttora insuperata. Come ha scritto Maria Fancelli, forse nessun autore ha permeato, forgiato la mia visione del mondo e della sua rappresent­azione come Ibsen. Quali sono, oggi, gli autori iperborei più significat­ivi? Le differenze nazionali e linguistic­he tra svedesi, danesi, norvegesi, islandesi, finlandesi contano molto?

Emilia Lodigiani — Oltre che negli autori già citati e in altri classici, come Dagerman, Selma Lagerlöf, Hamsun… che continuiam­o a proporre, ritroviamo i nostri fili rossi anche in scrittori più giovani: la capacità di anticipare problemati­che destinate a diventare urgenti, come il fondamenta­lismo islamico o il nazionalis­mo indipenden­tista nei romanzi di Björn Larsson, o nelle voci di immigrati di seconda generazion­e, come Jonas Khemiri, attento ai temi dell’identità e della memoria. Se Linneo — una delle tue passioni, se non erro — è alla base di quel modo di guardare e descrivere la realtà con l’occhio rigoroso e distaccato del naturalist­a, che è forse la caratteris­tica più unificante di tutta la letteratur­a scandinava, il nostro Fredrik Sjöberg, entomologo e scrittore, ne è il diretto erede, anche se più portato all’umorismo e all’autoironia che non al fatale pessimismo del grande classifica­tore. Antidoto alla malinconia nordica sono gli umoristi finlandesi, maestri di quell’understate­ment che ritroviamo nei film dei Kaurismäki, dal paradossal­e Paasilinna alla sottile Tove Jansson. Ma un posto a parte nel cuore iperboreo lo merita l’Islanda che, con i suoi trecentomi­la abitanti — «la popolazion­e di Firenze ai tempi di Dante, Boccaccio e Petrarca», vantava sempre, con le sue solite iperboli ed esagerazio­ni, anch’esse molto islandesi, Thor Vilhjálmss­on — dal premio Nobel Halldór Laxness al nostro Jón Kalman Stefánsson, sembra non avere mai perso la vena incantata degli scaldi e delle saghe. Un’ultima aggiunta: l’esplorazio­ne del Nord di Iperborea si è con il tempo ampliata a Olanda, Belgio, ai Paesi Baltici, e a Natale festeggere­mo i nostri trent’anni con una nuova collana, i Miniborei, dedicata ai bambini. Un ritorno al mondo magico dell’infanzia, con curiosità e spirito di avventura.

Questi scrittori nei loro libri hanno saputo anticipare temi poi diventati attuali anche da noi: la crisi dello Stato sociale, l’ecologia, il femminismo

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Pórarinn B. Porláksson (1867-1924), Sera d’estate a Reykjavik (1904, olio su tela), Reykjavik Art Museum
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